Eloisa Massola

Angeli e streghe: creature dell'ou-topia

 

Kylix attica a figure rosse, da Vulci, 480-470 a.C. circa, ceramica dipinta.
Nel tondo interno di questa kylix attribuita al Pittore di Edipo è raffigurato il famoso episodio di Edipo in vesti di viandante che, presso la città di Tebe, ascolta l'enigma propostogli dalla Sfinge.

Stabilire una connessione di tipo comparativo fra angeli e streghe potrà sembrare di primo acchito azzardato, specie se ci si limita a considerare queste figure – appartenenti all’immaginario collettivo – senza discostarsi dalla tradizione. Angeli e streghe non sono difatti soltanto messaggeri del divino e ignobili megere che hanno deciso di stringere un patto col diavolo; bensì anche creature che affondano le proprie radici in un terreno comune: entrambi, infatti, compiono un cammino eterno, un percorso ad infinitum di andata e ritorno, fra il mondo umano e quello (inconcepibile e per questo indefinibile) che si colloca oltre il velo della conoscenza.
L’ou-topia, il non-luogo, è lo spazio del sacro, inteso non tanto come capacità generativa, bensì quale realtà altra, che non può essere com-presa e in cui tutto nasce e si cancella, in un ciclo perpetuo. Non è un caso che sia gli angeli che le streghe possiedano la capacità di volare: il volo è, per eccellenza, il movimento della creatura che giunge sino all’uomo dalle regioni dell’inconoscibile[1]. E non a caso entrambi hanno la facoltà di uccidere con una sola fulgida occhiata, abilità ereditata dai mostri mitologici di epoca pre-cristiana, che sono progenitori tanto dell’angelo quanto della strega.
Il presente articolo, com’è ovvio, non pretende di esaurire l’argomento. Si cercherà piuttosto, in queste poche pagine, di rintracciare (utilizzando, nello specifico, gli strumenti messi a disposizione dalla letteratura e, nello specifico, dal folclore popolare piemontese) il filo rosso che unisce gli angeli e le streghe, rintracciando i legami che queste figure (religiose, letterarie, folcloristiche) intrattengono con la mitologia greco-romana: un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, nel tentativo di ricostruire la fisionomia di due importanti archetipi del nostro immaginario.

L’angelo, nella sua qualità di messaggero (dal greco aggelos: messaggero, emissario, nunzio), è il daimon che collega il mondo umano all’oltre-mondo. Creatura dalla personalità sfuggente, si identifica in tutto e per tutto con il messaggio di cui è portatore – e spesso si tratta di un messaggio di morte. Nei testi sacri (nell’Antico Testamento più che nel Nuovo), accanto ai custodi (il cui esempio più fulgido è rappresentato dalla vicenda di Raffaele che soccorre Tobia), grande parte hanno gli sterminatori: dai castigatori della città di Sodoma[2] ai guerrieri luminosi che si presentano a punire[3] Eliodoro, passando per tutti quei nunzi divini che, pur recando messaggi rassicuranti, tuttavia terrorizzano gli uomini con la loro apparizione inaspettata[4]. L’angelo del castigo – della morte – è un vero e proprio monstrum: creatura extra-ordinaria e terrificante, proviene da quella dimensione divina, ou-topica, a rigore non afferrabile dalla razionalità umana.
Nella Bibbia, questa tipologia di angelo si annuncia attraverso precisi segnali: la luminosità intensa e accecante (paragonabile al fuoco distruttore e alla notte); la capacità di fare terra bruciata intorno a sé, diffondendo il contagio e modificando la realtà sociale e ambientale all’interno della quale l’angelo si è manifestato (caratteristica che in questo articolo verrà tenuta in particolare considerazione); lo stordimento provocato nelle vittime; l’impossibilità, da parte dell’uomo, di sostenere lo sguardo della creatura angelica. Negli apocrifi così si parla di Abbaton, angelo della morte per volontà di Dio stesso:

«Dio allora chiamò l’angelo Muriêl, gli parlò della caduta dell’uomo e gli affidò la signoria sull’umanità: “… sei tu, infatti, che l’hai portato (Adamo) a me… Il tuo nome sarà un terrore in bocca a tutti, ti chiameranno Abbaton, angelo della morte. La tua fama e la tua immagine saranno connesse a lamentazioni, a ira e minacce per tutti i viventi fino a quando non avranno reso l’anima…” […]»[5].

Antenate dirette di Abbaton sono tutte quelle creature mitologiche, più o meno mostruose, che già nelle religioni antiche collegavano il mondo dei mortali a quello (infero, prima che superno) degli dèi e che, in quanto tali, erano capaci di produrre cambiamenti drastici nella natura e nell’ordine stabilito: il caos come disgregazione dell’unicum è anticipazione e metafora di morte. Le Erinni, personificazioni del rimorso, della vendetta e del castigo, nate dalle gocce di sangue della castrazione di Urano sono messaggere dell’alterità divina, capaci di cancellare ogni traccia di vita e di diffondere malattia, pestilenza, caos. Così parlano, irate, ad Atena nelle Eumenidi di Eschilo:

«Ahi, giovani dèi, / voi avete calpestato le leggi antiche / e dalle mani me le avete strappate! / Ma io, disonorata, infelice, grave / nel mio rancore, in questa terra, ahimé, / veleno, veleno compenso al mio dolore / spremerò dal cuore, stillicidio / che fa sterile il suolo: /quindi una lebbra che ogni foglia dissecca / arida di figli – oh, Giustizia, Giustizia! – / dilagando al suolo, / getterà nel paese / chiazze ammorbanti / distruggitrici di mortali»[6].

William-Adolphe Bougerau, Oreste perseguitato dalle Erinni, 1862, Norfolk (Virginia), Chrysler Collection.

Al pari dell’angelo, anche le Erinni sono dunque capaci di disseccare, isterilire, far precipitare l’umanità nella confusione e nel terrore, cancellando i ritmi naturali. Anguicrinite, spaventose, le Erinni sono angeli, se intendiamo indicare con questa parola ogni creatura che funga da trait d’union fra il dio (inteso in primo luogo come ou-topia, spogliato dunque da qualsiasi dottrina teologica) e l’uomo, fra il mistero della morte e la conoscenza (ad esso direttamente collegata) della dimensione altra, dimora di quell’altrimenti in-conoscibile.

Gustave Doré, La foresta delle arpie, illustrazioni per La divina commedia, 1857.

Angelici monstra sono poi le Arpie (dal greco arpàzo: rapire, strappare, portare via, saccheggiare) donne-uccello che devastano e insozzano, non a caso collocate da Dante nella selva dei suicidi, in qualità di castigatrici[7]; le Sirene, descritte da Omero intente a cantare, con voci melodiose, su una spiaggia disseminata di ossa e resti umani: lo sterminatore è difatti un uccello vorace; Ecate, divinità notturna, emblema del lato femminile più pericoloso e ferino; le Gorgoni (dal greco gorgós: terribile, feroce, torvo) che dell’angelo possiedono la capacità di catturare la vita per mezzo dello sguardo[8]; la Sfinge (il cui etimo è incerto: si pensa infatti che l’assonanza col verbo greco sphiggo - serrare, stringere, soffocare – sia da scartare in virtù di una probabile origine egizia del termine), creatura dell’enigma e della seduzione, giunta dal non-dove a diffondere la malattia.
Non da ultime le striges, affini alle Arpie e con un’identità, però, molto meno definita, legata alla cultura popolare più che ai grandi poemi epici, all’universo naturale e alla campagna notturna. Col termine striges, infatti, si indicavano tanto le streghe (monstra volanti, dotati di artigli pronti a ghermire e strappare: donne terrificanti che si muovevano nella notte, seminando il terrore) quanto i gufi, le civette o i barbagianni, le cui strida segnalavano la calata dall’alto di invisibili e malevole creature e facevano accapponare la pelle ai viandanti e ai contadini chiusi nelle loro abitazioni[9].

«Quando ancora portavo i capelli lunghi, dovete sapere che da ragazzo facevo la vita, venne a morire il favorito del nostro principale, perdio un gioiello, un cocchino, e pieno di numeri. Nel mentre che dunque la madre, poveretta, lo piangeva e noi, in tanti, eravamo lì per la veglia funebre, d’un tratto le streghe[10] attaccarono a stridere: pareva il cane quando insegue la lepre. C’era allora con noi un Cappadoce, un armadio, un coraggioso mica da poco, e che aveva una bella forza: era capace di sollevare un bue inferocito. Lui, con arditezza, sguaina la spada, si slancia di corsa fuori dalla porta, con la mano sinistra ben protetta dalla fasciatura, e infilza una di quelle, grossomodo a quest’altezza – sia salvo quel che tocco. Noi sentimmo un mugolio ma loro – vi assicuro che sto dicendo la verità – non le vediamo. Allora il nostro gigante, rientrato in casa, si buttò sul letto e aveva dei lividi lungo tutto il corpo, come se avesse preso delle frustate, perché era chiaro che lo aveva toccato una mano stregata».[11]

Angeli, monstra e streghe, dunque, come uccelli rapaci - predatori notturni - che giungono (inaspettati e per questo ancora più spaventosi) dalle alte nebulose dell’ou-topia, dalle dimensioni del caos, agitato dai «cicloni»[12], dove risiede il divino, per rendere nota all’umanità – con la loro sola presenza – l’esistenza di una verità altra. Rivelazione, questa, che spesso s’accompagna all’urgenza della morte improvvisa e sterminatrice[13].
Oltre ad apparire hic et nunc, nell’«emergenza del tremendo»[14], anche le streghe della tradizione greco-romana, connotate come figlie di Ecate e al pari dell’angelo, possiedono la capacità di operare non soltanto sull’uomo, ma anche sul mondo naturale per recare morte e distruzione.
La peste minacciata dalle Erinni nel già citato stralcio del coro delle Eumenidi e quella trasmessa e diffusa dalla Sfinge di Tebe – tanto per citare due celebri contagi – ricordano da vicino le malìe e la capacità propria delle streghe di stravolgere il complesso delle regole naturali cui gli uomini sono abituati e che da sempre sono considerate intoccabili. Canidia stessa, nella Palinodia di Orazio, dichiara di essere capace di farsi gioco di tutte le leggi del cosmo – esattamente come facevano le terribili fattucchiere della Tessaglia:

«Io, che posso animare immagini di cera, / come tu curioso hai visto, e giú dal cielo / strappare con i miei incantesimi la luna, / io, che posso dalle ceneri risuscitare i morti / e stemperare i filtri della passione, credi / che piangerò, se le mie arti su te non hanno effetto?»[15].

Vita, morte, amore, kukloi; Orazio lo ribadisce nel V brano contenuto negli Epodi: per nuocere a nemici e antichi amanti, le strigae possono arrivare a scambiare la terra col cielo:

«Filtro più forte ti preparerò, più forte / te lo mescerò, visto che mi odi, / e il cielo sprofonderà nel mare e su questo / si stenderà la terra […]»[16].

Lo stesso tipo di prodigi viene compiuto dalle streghe della tradizione contadina successiva all’avvento del cristianesimo e tuttora diffusa (sebbene stia andando scomparendo) nelle nostre campagne. E se le streghe moderne sono più riluttanti, sia rispetto a quelle della civiltà greco-romana che alle vittime perseguitate dall’Inquisizione, a trasformarsi in uccello o a volare via attraverso la cappa del camino, è pur vero che ancora si divertono a sovvertire l’ordine naturale (e sociale) e a creare un grande scompiglio nelle comunità agricole.
Dopo la sua morte, la masca Micillina aveva disseminato la campagna di strani animali, più grandi del normale e forse automi; ragni grandi come ombrelli e pulcini e galline che, camminando, producevano rumori metallici[17]. Similmente, la masca della Val Granda spaventava i passanti con una pecora che emetteva forti ruggiti e trasmetteva ai buoi il timor panico, impedendo il transito degli animali che si recavano al pascolo. La Bocca Nera, invece, strega di Cossano, sapeva trasformare i fichi in gatti, per scongiurare il pericolo dei ladri.
Di racconti simili se ne trovano in gran numero nelle raccolte di leggende popolari e molti vengono ancora tramandati oralmente dai nostri vecchi. In tutti – o in quasi tutti – la natura viene usata come strumento malleabile per imporre una volontà altra, contro la quale vengono a scontrarsi la vita e il destino umani. Come l’angelo agisce spaventando i comuni mortali con la sua epifania, così la strega terrorizza allevatori e contadini comparendo all’improvviso fra i prati e sui sentieri.

«C’era una festa a Murazzano, così mia madre portò noi quattro – i miei due fratelli, mia sorella e me – a vedere i falò. La festa fu molto bella, ma intanto era scesa la notte e mia madre, preoccupata, disse alla sua amica: “Enrichetta, è meglio se andiamo a casa. Viene notte, dobbiamo passare per il bricco e io ho paura delle masche”. Ma l’altra rispose: “Non aver paura, ti accompagno io. Restiamo a vedere i falò”. Così rimanemmo e dopo lo spettacolo prendemmo la via di casa. Non era tanto lontana, appena un quarto d’ora, ma quando arrivammo in cima alla salita, la masca c’era davvero. Mia mamma si mise a urlare: “Guarda là, la masca!”. Noi avevamo paura, e io piangevo: “Uh, la masca, la masca!”, chiamando Silvia, chiamando Enrichetta, perché ero la più piccola fra loro»[18].

E come l’angelo agisce sull’ambiente circostante (confondendosi con esso e confondendo l’ambiente stesso, allo scopo di portare caos e morte), allo stesso modo la strega plasma la natura come se fosse materia malleabile, strumento per perseguire fini estranei all’ordinario: quelli della strega stessa, che il più delle volte è in combutta col demonio, sintesi per eccellenza delle divinità infere le cui peculiarità sono state dal cristianesimo potenziate ed esasperate.
Perciò, per quanto possa sembrare bizzarro paragonare gli angeli splendenti della tradizione biblica alle streghe contadine che vivevano ai margini della socialità, è tuttavia innegabile che lo schema che si ripete in questo genere di apparizioni abbia radici lontane e comuni (nell’antichità greco-romana) e sia sempre lo stesso: l’evento prodigioso e mortifero che si manifesta all’improvviso e modifica, con la sua urgenza, un processo equilibrato di vita e legami sociali. Il ciclo si spezza, si fa in frantumi (brulica di frantumi[19]) ed è proprio la presenza della creatura mortifera (angelo o strega) a determinare questo cambiamento – da cui difficilmente si potrà tornare indietro.

NOTE
[1] Il tema del volo come apparizione della creatura angelica che è manifestazione inaspettata di una realtà “altra” è presente nel XII mottetto di Eugenio Montale, ne Le occasioni: «Ti libero la fronte dai ghiaccioli / che raccogliesti traversando l'alte / nebulose; hai le penne lacerate / dai cicloni, ti desti a soprassalti». Inoltre è vastissima la documentazione antropologica in merito al tema del volo come esperienza estatica.
[2] Gn 19, 15-17.
[3] 2Mc 3, 25 e 2Mc 10, 29.
[4] Si vedano, a titolo di esempio, i seguenti episodi: Gdc 13,20 e Tb 12, 15-21: in entrambi i casi gli uomini, al cospetto dell’angelo, abbassano rapidamente lo sguardo, sperando di salvarsi dalla potenza angelica interrompendo il contatto visivo e provano un vero e proprio timor panico, che si allenta solo nel momento in cui il messaggero scompare.
[5] L. Moraldi (a cura di), Apocrifi del Nuovo Testamento, vol. 3, UTET, Torino, 1994, p. 429.
[6] Eschilo, Eumenidi, vv. 778 – 787, in trad. it. Orestea, BUR, Milano, 1997.
[7] D. ALighieri, Inferno, canto XIII.
[8] Il tema dello sguardo e della conoscenza/morte che passa attraverso di esso è articolato e complesso. Qui è sufficiente ricordare: J.-P. Vernant, La mort dans les yeux: figures de l’autre en Grèce ancienne, Hachette, Parigi, 1985, trad. it. La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Il Mulino, Bologna, 1987; A. Huxley, The Art of Seeing, 1942, trad.it. L’arte di vedere, Adelphi, Milano, 1989; G. Baldissone, Gli occhi della letteratura. Miti, figure, generi, Interlinea, Novara, 1999; e il recente R. Peregalli, La corazza ricamata. I Greci e l’invisibile, Bompiani, Milano, 2008.
[9] La stessa Ecate, del resto, era solita annunciare il proprio passaggio con grida animali: si racconta che il latrato improvviso e all’unisono dei cani, dopo il tramonto, segnalasse la presenza sulla terra della “signora dei crocicchi”.
[10] Strigae nell’originale latino.
[11] Petronio Arbitro, Satyricon, 63, trad. it. in BUR, Milano 2007.
[12] E. Montale, Le occasioni, a cura di D. Isella, Einaudi, Torino, 1996.
[13] Nel racconto popolare piemontese che narra le imprese e il processo della masca più celebre, la Masca Micillina, è contenuta un’apparizione di striges molto simile a quella rievocata da Trimalchione nel romanzo di Petronio: le masche volano nel vento, invisibili agli occhi umani e riempiono l’aria con le loro acute grida. L’ironia della sorte vuole però che la vittima destinata ad andare incontro alla morte sia un’altra strega: Micillina, appunto.
[14] R. M. Rilke, Duineser Elegien, I, vv. 4-5, trad. it. Elegie duinesi, BUR, Milano, 1994.
[15] Orazio, Epodi XVII, 76-82.
[16] Ivi, V, 20.
[17] T. Gatto Chanu, Leggende e racconti popolari del Piemonte, Newton Compton, Roma, 2008.
[18] Testimonianza di Elvira M., classe 1921, Saliceto, in D. Bosca, Masca ghigna fàussa, Priuli&Verlucca, Ivrea, 2005, p. 130.
[19] Sul brulichio come prefigurazione di morte si veda: P. Camporesi, La carne impassibile, Garzanti, Milano, 1994.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Saggistica
:
Baldassone, G., Gli occhi della letteratura. Miti, figure, generi, Interlinea, Novara, 1999.
Bosca, D., Masca ghigna fàussa, Priuli&Verlucca editori, Ivrea, 2005.
Camporesi, P., La carne impassibile, Garzanti, Milano, 1994.
Gatto Chanu, T., Leggende e racconti popolari del Piemonte, Newton Compton, Roma, 2008.
Huxley, A., The Art of Seeing, 1942, trad.it. L’arte di vedere, Adelphi, Milano, 1989.
Moralsi, L., (a cura di), Apocrifi del Nuovo Testamento, vol. 3, UTET, Torino, 1994.
Peregalli, R., La corazza ricamata. I Greci e l’invisibile, Bompiani, Milano, 2008.
Vernant, J.-P., La mort dans les yeux: figures de l’autre en Grèce ancienne, Hachette, Parigi 1985, trad. it. La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Il Mulino, Bologna, 1987.
Opere letterarie:
APULEIO, Metamorphoseon, trad. it. Le metamorfosi, BUR, Milano, 2007.
ESCHILO, Eumenidi, in trad. it. Orestea, BUR, Milano, 1997.
MONTALE, E., Le occasioni, a cura di D. Isella, Einaudi, Torino, 1996.
PETRONIO ARBITRO, Satyricon, trad. it. in BUR, Milano, 2007.
RILKE, R. M., Duineser Elegien, trad. it. Elegie duinesi, BUR, Milano, 1994.

BIBLIOTECA CORRELATA
Vernant, J.-P., La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Il Mulino, Bologna, 1987.

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