Salvo Incardona

Heimatlosigkeit*
COMMENTO ALL’APOLOGO DER JÄGER GRACCUS DI FRANZ KAFKA

L’uomo libero non pensa a niente meno che alla morte;
e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita.

B. Spinoza, Ethica, IV-67.

Alfred Kubin, L'altra parte.

Ripercorrendo l’opera di Kafka accade sovente d’imbattersi in un enigmista, in un ideatore di sciarade che con spietata sistematicità ha celato i suoi scritti dietro un campionario di segni, di cifre, di metafore e di simboli, dietro una così fitta rete di ostacoli che, nel caso in cui si volesse tentare un approccio critico – sia esso uno studio condotto da uno specialista che una critica “domestica” fatta dal lettore qualsiasi –, la prima istanza di lavoro sembrerebbe l’imprescindibile e gravoso compito dell’analisi, interpretazione e decodificazione dell’iconografia che ne permea ogni scritto.
L’enigma, però, è talvolta ben nascosto e in agguato sin tal titolo: il nome Gracco, infatti, richiama la cifra stessa di Kafka: graculus/taccola/kavka. Tuttavia – e qui sta l’esemplarità che contraddistingue e rende unico il Kafka scrittore – nel definirsi del processo testuale e della ricerca ermeneutica del significato, la decifrazione del titolo non è che un primo ostacolo, una prima potenziale soglia da varcare che, come nel caso dell’uomo di campagna della Legende[1] – il quale si trova al cospetto della porta che dà accesso alla legge – ne nasconde mille altre al suo interno, sorvegliate da mille altri guardiani – mille cifre! – che ne suggellano ulteriormente l’invalicabilità. Difatti, procedendo attraverso lo svolgimento della narrazione, ci si accorgerà facilmente della stratificazione di cifre e simboli che sovrastano e (è proprio il caso di dirlo) custodiscono il senso ultimo del racconto.
Accanto alle asprezze esegetiche e alle difficoltà che sorgono nel tentativo di andare oltre il normale rapporto tra significante e significato, ritroviamo anche la cifra più profonda e maggiormente controversa della narrativa kafkiana, e cioè la dimensione parabolica – e anti-parabolica – che impregna molti dei suoi scritti, ed in special modo quelli più brevi. La trasmutazione di queste storie in parabole, tuttavia, se pur sintomatica di un elemento che funge da detrusore dalla freddezza della razionalità, non risulta in alcun modo capace di porle ad un livello prossimo alla catarsi, condannandole invece ad un’angosciosa figurazione, la quale, svincolata da ogni riferimento empirico, è spesso così estrema da risultare difficilmente decifrabile: la parabola, punto d’incontro e di mediazione tra l’uomo e l’assoluto (e quindi tra l’uomo e la verità) diventa anche un limite metafisico invalicabile.

«A Riva[2] sul lago di Garda attracca una barca con una bara che contiene il cacciatore Gracco, condannato a vagare per il mondo perché quando morì, per un errore la sua bara non approdò nell’aldilà. Da allora, pur essendo innocente, il cacciatore è sospeso tra vita e morte, tra colpa e innocenza, impotente a rettificare il suo destino, è costretto a non essere»[3].

Così, con una sintesi rapida ma efficace, Marino Freschi ci presenta la vicenda del cacciatore Gracco. Una figura a cui non sarebbe del tutto errato accostare, con la dovuta cautela, quella dell’ebreo errante (der ewige Jude), se ci proponiamo di porre quest’ultima entro i limiti della novecentesca metafora dello sradicamento, inteso come condizione metafisica dell’uomo sulla terra. Ad incontrarsi qui – o a scontrarsi – sarebbero apparentemente i lati di un’opposizione memorabile: l’eterno pólemos tra il limite e l’illimitato, l’abitare e l’errare, la rinuncia e il tendere (streben). L’ebreo errante, questa figura dai contorni favolosi, eternamente in fuga da se stesso e da tutto, proteso verso un sempre-oltre i cui tratti sfumano nel vuoto come una dissolvenza senza fine, è l’eroe mitico-simbolico dello sradicamento e dello spaesamento, dell’esilio perpetuo, della dissipazione e della deriva – in definitiva, dell’assenza del limite. Come la tradizione filosofica insegna – da Platone fino a Hegel – vi è nello stesso concetto di limite una dialettica che ne rende impossibile ogni considerazione astratta dal suo opposto. Per l’essere finito che noi, i mortali, radicalmente siamo, ogni superamento del limite in direzione dell’illimitato coincide necessariamente con il riconoscimento e l’accettazione del limite stesso. Siamo illimitati in quanto possiamo (infinitamente) rinunciare alla pretesa di essere noi stessi illimitati. Questo trascendere racchiude in sé solo l’apparenza del trascendere: esso è piuttosto un immanere, un accettare il limite, e, in altre parole, un abitare la propria finitezza nell’eterna sostanza dell’indistruttibile.

A ben guardare, però, l’aporia appare evidente, in quanto nessuna delle due figure aderisce a questa logica di pensiero – e in special modo quella del cacciatore Gracco che, tra le due, è l’unica che effettivamente ci interessa. Difatti, se pur rimane presente la dimensione dello streben, è questo un tendere verso una meta che non ha come suo ultimo (e irraggiungibile) scopo la sublimazione nell’assoluto, bensì l’annullamento, ossia la sublimazione (altrettanto irraggiungibile) attraverso l’assoluto. Non c’è la spinoziana persuasione della possibilità di abitare l’indistruttibile, né la visione di una terra promessa in cui poter trovare il proprio ubi consistere; non si cerca l’accostamento epifanico a ciò che infinitamente oltrepassa il regno dello svanire e del venir meno. Al contrario, è possibile scorgere la sofferenza ed il malessere che risiede sempre in fondo al soggetto che sente l’esigenza di porsi all’altezza dell’oltraggio che gli rende inattuabile ogni appaesamento e ogni persuasione nella perfectio della realtà – una realtà tuttavia intangibile, che nega ciò che mai è negato e precluso ad alcuno: la morte.

Alfred Kubin, Wassergeist, ink drawing, watercoloured, 1905.

Non possiamo però astenerci dal prendere in considerazione il grande paradosso che, pur nella loro radicale diversità, lega queste due “figurazioni”: quella tradizionale (e se vogliamo, quindi, anche razionale) e quella del cacciatore Gracco. Entrambe, infatti, sono permeate da quella meditatio mortis che altro non è se non lo sguardo di chi contempla l’impossibilità di attingere la pienezza della gioia nell’elemento dell’indistruttibile. L’una – e qui sta la divergenza, in un susseguirsi incessante di analogie ed opposizioni – nel momento decisivo in cui ha inizio il suo itinerarium mentis in Deum, la via verso l’irraggiungibile gioia e l’indistruttibile, l’intenzione rivolta al summum bonum; l’altra, invece, protesa in uno slancio che è tutto rivolto all’annullamento, ma senza nessun senso della perdita, nessun lutto, nessuna dichiarazione di inanità e vanitas. Nessun dolore, insomma, accompagna questo pensare e questa esposizione pura in cui la coscienza si è data la sua assoluta educazione e disciplina al di là di ogni sentimento e scopo sensibile: la vita dello spirito, giunta qui alla purificazione rarefatta dello sguardo logico, non arretra di fronte alla morte e all’assoluta devastazione del perire, non si abbandona a nessuna disperazione o mestizia – non teme e non trema – ma contempla le vie della necessità.

«La nostra salvezza è la morte, ma non questa».

«Il lamento al letto di morte non è che il lamento che qui non si è morti nel vero senso»[4].

Qual è allora il vero senso della morte? L’uomo, la cui vita fu un indugiare di fronte alla nascita, e che quindi non è mai veramente nato, potrà sperare di morire veramente, o non sarà costretto, piuttosto, a vagare senza fine, morto tra i vivi, vivo tra i morti? Sembra quasi una sfida alla natura e all’essere delle cose finite: poiché esse sono. Ma la verità di questo essere è la loro fine. Nessuno stare, nessun consistere; nessuna cosa è concessa alla finitezza. Suprema irrequietezza e mobilità votate però al finire, destinate al venir meno. L’essere delle cose finite, come tale, sta nell’aver per loro essere, dentro di sé, il germe del perire. La caducità cova nel finito come una malattia congenita o ereditaria che avvelena e ammorba prima di ogni contagio o epidemia. Per le cose finite l’ora della loro nascita è l’ora della loro morte. Inseparabile identità istantanea del sorgere e del tramontare, del venire e dell’andare via, dell’incominciare e del cessare. Desolante inizio che è già una fine. Assoluta instabilità, perpetuum mobile tra due nulla.

C’è chi ha voluto scorgere in questo un rimando alla mistica ebraica, e, nel caso particolare, al tema della trasmigrazione delle anime o gilgul, supplizio al quale vengono condannate quelle anime che non possono scontare la loro pena nella geenna o quelle altre che non hanno raggiunto la perfezione spirituale[5]. Un accento singolare di questa dottrina è la corresponsabilità: le persone che vivono con animali o cose che sono il gilgul di un essere umano - e che quindi debbono in questo modo espiare una colpa - sono obbligati, in virtù della comune radice dell’anima, ad aiutarli nel tentativo di raggiungere la propria espiazione. Ciò significherebbe che tra il mondo animale e quello umano la differenza è solo formale e non sostanziale: dietro forme diverse si cela sempre l’anima umana, che tende naturalmente verso la redenzione e la purificazione. In Kafka questo concetto di solidarietà è presente nella prosa Un incrocio (1917), nella quale l’animale, per cui «il coltello del macellaio potrebbe essere una redenzione»[6], invita il proprietario ad agire «con intelligenza»[7], a rispettare, cioè, l’obbligo imposto dalla solidarietà. Nel pensiero kafkiano, però, non sembra esserci alcuna redenzione possibile. Infatti, se la morte è salutata come mezzo di espiazione – sia dell’uomo condannato ad un gilgul umano che di quello condannato invece a quello animale – in Kafka è solo un rinvio ad altre sofferenze, ad altri gilgul, ad altre vite, in un eterno circolo vizioso al di fuori della legge.

Così, è bene non dimenticare che Kafka pone sì il suo lettore al di fuori della legge, ma lo pone anche di fronte alla porta che, come nel caso dell’uomo di campagna, è destinata a lui e a lui soltanto. Pur non smentendo (né tanto meno avvallando) pienamente nessuna delle teorie interpretative – che dalla morte dello scrittore praghese fino ai giorni nostri sono sorte numerosissime – con assoluta sicurezza possiamo solamente aggiungere che la narrativa kafkiana si sviluppa sempre secondo la dialettica di due momenti: quello passivo e irrazionale della visione e quello attivo e razionale dell’interpretazione. Una dialettica, però, che è priva di sintesi[8]. Risulta evidente, difatti, che giunto al limite della parabola Kafka non osi mai interpretarla veramente, consegnandoci pagine il cui peso simbolico non ci permette di delimitarle e definirle, che non ci consente, quindi, d’inserirle attraverso una qualsivoglia denominazione empirica all’interno di un sistema di valori noti:

« […] le immagini kafkiane, lontane come sono da ogni rapporto di valore ed isolate completamente in se stesse, vengono proiettate nello spazio dell’insignificabile dal quale esse ritornano al lettore dannate ed oppresse da un intollerabile peso simbolico, da una concretezza inaudita, da una corporeità intraducibile che da immagini fa di esse cose in cerca del rapporto di un nome, cose pervase da una panica ansia di liberarsi della loro concretezza, di risolversi in una parola che le redima e le strappi dalla loro muta esistenza»[9].

Del tutto superfluo, quindi – e forse addirittura improduttivo –, chiedersi se il motivo delle colombe, dei cinquanta bambini, della divisa dei portatori, o della cripta intervengano all’interno della breve narrazione con un significato ben preciso. Essi rappresentano con tutta probabilità soltanto elementi “esteriori”, validi cioè a ricreare una situazione di sospensione metafisica; componenti che servono a condurla inesorabilmente verso le sue estreme conseguenze; deboli orpelli che dipendono dall’ancor più debole esigenza di avversare quell’impossibilità di descrizione del mondo interiore che è tema centrale nell’opera di Kafka.

La straordinaria concretezza delle immagini kafkiane è, in definitiva, un’astrazione attraverso la quale egli rifiuta il linguaggio della psicologia – il linguaggio sensibile – per servirsi di un linguaggio più alto – la metafora, la parabola, la leggenda, la pantomima – attraverso il quale riesce a restituirci una realtà inclusa nel crittogramma, ma assolutamente priva di un qualsiasi anestetico ontologico contro le lacerazioni e le sofferenze della vita.

Per Kafka, insomma, il mondo dello spirito è sempre strettamente connesso al mondo sensibile, materiale. L’io non è mai fittizio o irreale perché immerso nel corpo, ma diventa irreale e si annulla allorché smarrisce il rapporto con quest’ultimo. L’estraneità – ha brillantemente osservato Wolfgang Kayser – ha origine in Kafka non nell’io, ma nell’assenza del mondo e nella mancante concordanza tra l’io e il mondo[10].

A questo punto, però, rimane evidentissima l’impossibilità di tale rapporto all’interno del mondo di Kafka, l’inquietante mancanza di sostanzialità nello scambio tra questo mondo ed un io irrimediabilmente condannato alla catabasi e all’annullamento, o peggio, come nel caso del cacciatore Gracco, alla sospensione eterna, la quale, impedendo l’assegnazione di un significato alla propria esistenza, impedisce una partecipazione attiva alla vita e preclude la possibilità di dare un senso alla propria morte.

Mors et vita duello conflixere mirando.

NOTE
* L ’essere senza patria
[1] Dinanzi alla Legge (Vor dem Gesetz) è l’unico brano del romanzo Il Processo (Det Prozeß) – all’interno di quest’opera contenuto nel capitolo Im Dom (Nel duomo) – autonomamente pubblicato già nell’inverno del 1914 sulla rivista sionista praghese Die Selbstwehr con il titolo Legende.
[2] Si noti che Kafka si recò per due volte in vacanza in questa località, nel 1909 e nel 1913.
[3] Marino Freschi, Introduzione a Kafka, Bari, 1993, p. 109.
[4] Franz Kafka, Betrachtungen über Sünde, Leid, Hoffnung und den wahren Weg (H. 123 e H. 122).
[5] Cfr. Gershom Scholem (a cura di), Lo splendore della Qabbalà, Como, 1995.
[6] Franz Kafka, Un incrocio, in Racconti (a cura di E. Pocar), Milano, 1980, p. 212.
[7] Ibidem.
[8] Cfr. Giuliano Baioni, Romanzo e parabola, Milano, 1962.
[9] Giuliano Baioni, op. cit., p. 25.
[10] Cfr. Wolfgang Kayser, Das Groteske. Seine Gestaltung in Malerei und Dichtung, Oldebug 1957.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Baioni, Giuliano, Kafka. Romanzo e Parabola, Milano, 1962.
Benjamin, Walter, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, 1962.
Dentan, Michel, Humour et création littéraire dans l’œuvre de Kafka, Paris, 1961.
Freschi, Marino, Introduzione a Kafka, Bari, 1993.
Hochreiter, Susanne, Franz Kafka: Raum und Geschlecht, Würzburg, 2007.
Kafka, Franz, Gesammelte Werke, Frankfurt, 1946/58.
Mittner, Ladislao, La letteratura tedesca del Novecento, Torino, 1995.
Sokel, Walter H., Franz Kafka – Tragik und Ironie, München, 1964.
Urzidil, Johannes, Di qui passa Kafka, Milano, 2002.

BIBLIOTECA CORRELATA
Baioni, Giuliano, Kafka. Romanzo e Parabola, Milano, 1962.

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