Elagabalo: tra sfida sacrale e punizione storiografica
di Alessandro Chalambalakis

Io vedo in Eliogabalo, non un pazzo, ma un insorto.
Antonin Artaud

Eccesso chiama eccesso. Così come Elagabalo sfidò la romanitas tramite le sue dissolutezze quest’ultima lo punì nella storiografia infamandolo ed esasperando ogni aspetto della sua diversità. La maggior parte delle fonti antiche che documentano la vita di Elagabalo sono viziate e caratterizzate da un preciso intento politico: distruggere e infangare la memoria riguardante Elagabalo. Esse sembrano narrare molto di più dell’incompatibilità antropologica tra l’imperatore e la mentalità romana piuttosto che dei fatti riguardanti l’imperatore siriano stesso.

Alma-Tadema, Le rose di Eliogabalo, 1888, olio su tela.

Vario Avito Bassiano (nato ad Antiochia nel 204 sotto l’impero di Caracalla), che si fece nominare Elagabalo (nome della siriana divinità solare il cui culto egli stesso tentò di introdurre a Roma), regnò a Roma dal 16 maggio 218 all’11 marzo 222. Fu incoronato all’età di 14 anni grazie all’astuta rivendicazione della sua origine da una relazione incestuosa tra la madre Giulia Soemia (figlia di Giulia Maesa e nipote di Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo fondatore della dinastia dei Severi) e l’imperatore Caracalla.

Nei confronti di Elagabalo e del suo regno le fonti antiche non si limitarono ad applicare la damnatio memoriae, vennero altresì poste in dubbio e la legittimità del suo impero e la sua stessa umanità. Nelle fonti storiche, l’eccesso di disumanizzazione nei confronti di Elagabalo è pari solo agli eccessi ai quali egli sottopose la cultura romana. Qual è tuttavia la reale natura di tali eccessi? La società romana era d’altronde abituata ai vizi, ai lussi e alle bizzarrie imperiali. Elagabalo però non fu una semplice bizzarria, egli fu una minaccia culturale e cultuale che necessita di essere compresa in un quadro socio-antropologico più ampio. Quadro che ci aiuta a chiarire il motivo per cui le sue azioni risultarono un’opposizione così radicale alla tradizione romana. La profonda alterità e antitesi che Elagabalo rappresentò per i romani fu data da una commistione di elementi.

La sua fisionomia innanzitutto non era affatto quella del tipico uomo virile romano; egli era un fanciullo esile, effeminato e dai lineamenti orientali (ricordiamo che nella cultura romana l’essere orientali era spesso e volentieri associato all’essere barbari - non romani – e licenziosi). Egli inoltre ostentava le proprie origini siriache, non esitava ad apparire nudo in pubblico e non perdeva occasione di manifestare il suo amore per lo spreco, l’eccesso, il vizio, il lusso. Egli delegava potere alle donne, agli efebi, alle prostitute e agli omosessuali e lo faceva in nome di quel culto orientale, di sostanziale natura sessuale, della divinità Elagabalo. Compiva, sempre in nome del culto siriaco, empietà, blasfemie e dissacrazioni verso le divinità, i riti e le usanze più tradizionali del mondo romano (sposò la vestale Aquilia Severa[1], destinò donazioni tradizionalmente assegnate ai soldati a prostituti omosessuali[2], ecc..). Tale avversione nei confronti dei costumi romani in un periodo in cui l’identità dei romani vacillava (III secolo d.C.) non fu certo una causa da sottovalutare in merito al contrasto tra l’élite del potere romano e l’imperatore[3]. Durante il regno di Elagabalo, Roma perse territori e l’esercitò si indebolì notevolmente[4]; egli era d’altronde completamente disinteressato alla guerra e alla vita militare. Questo causò una radicale ostilità da parte dell’esercito per il quale la guerra era innanzitutto bottino, guadagno e possibilità di fare carriera militare. Non è accidentale il fatto che egli, insieme alla madre, rimase brutalmente assassinato per poi essere smembrato e gettato nel Tevere, per opera di un complotto di Giulia Maesa e Giulia Mamaea in favore del cugino Alessandro Severo, dagli stessi pretoriani[5]. Elagabalo, in sostanza, invece di rappresentare la romanitas ne incarnava la più radicale antitesi. In questo senso, nella sua opera letteraria, Artaud ne parla come di un anarchico incoronato:

«Quando fa eleggere un ballerino a capo della sua guardia pretoriana, realizza una specie d’anarchia incontestabile, ma pericolosa. Egli sbeffeggia la vigliaccheria dei monarchi, suoi predecessori, gli Antonimi e i Marc’Aureli, e trova che è sufficiente un ballerino per comandare una compagnia di poliziotti. Egli chiama la debolezza: forza, e il teatro: realtà. Rovescia l’ordine precostituito, le idee, le nozioni comuni delle cose. Egli pratica un’anarchia minuziosa e pericolosa, poiché si scopre agli occhi di tutti. Insomma giuoca la propria pelle. Il che è da anarchico coraggioso»[6].

Umiliando provocatoriamente se stesso, Elagabalo umiliava l’impero intero:

«Contro la monarchia romana che egli ha fatto inculare in se stesso […]. Quando Eliogabalo si veste da prostituta e si vende per quaranta soldi alle porte delle chiese cristiane, dei templi degli dèi romani, egli non cerca solo la soddisfazione di un vizio, ma umilia il monarca romano»[7].

Egli, difatti, manifestava apertamente la propria omosessualità soprattutto in quel ruolo passivo che la società latina temeva così tanto che apparisse nella sfera pubblica[8]. Il fatto che il piacere della passività riguardasse un imperatore (e non uno schiavo, una donna o un fanciullo) e soprattutto il fatto che l’imperatore ostentasse pubblicamente questo piacere costituiva un ribaltamento assoluto dei valori romani secondo i quali all’imperatore spettavano le doti virili del maschio attivo quali il comando, la padronanza, la capacità di guidare e amministrare e non di certo la lascivia e l’abbandono che nella mentalità romana erano caratteristiche femminili tipiche degli schiavi e dei servi oltre che delle donne. Elagabalo con il suo modo di essere e di governare ribaltò completamente questa verticalità gerarchica. Il suo abbandono al piacere passivo era vissuto come qualcosa di profondamente dissacrante dalla cultura romana. Il fatto che egli lo facesse inoltre in nome di un culto e quindi di una diversa sacralità rese le sue azioni un capovolgimento totale, una trasgressione assoluta e intollerabile.

Egli non si limitò a vivere nel vizio ma pretese di ribaltare anche ciò che i romani ritenevano virtuoso conducendo nel vizio l’apparato governativo stesso. Egli stesso amava prostituirsi, si faceva sovente sodomizzare dagli schiavi e dai liberti. Di fronte a loro stessi non si comportava come sovrano, come imperatore ma spesso e volentieri come schiavo erotico, come sodomita passivo. In questo modo Elagabalo non si limitava a condurre in basso se stesso ma portava con sé tutto quello che tramite il suo principatus rappresentava; ovvero l’intero impero romano.

La passività maschile in ambito sessuale, normalmente praticata ma rigidamente tenuta segreta e privata, era associata dalla mentalità latina ad una natura servile, schiava, non virile. Il fatto che un imperatore vi si abbandonasse pubblicamente risultava profondamente inammissibile in quanto era indice d’incapacità di comando, amore per il lusso, frivolezza e mancanza di controllo. Tutte caratteristiche associate alla donna, agli omosessuali passivi, agli schiavi e, conseguentemente, alla loro inadeguatezza alla vita politica.

Egli trascinava così la città nel vizio e nella corruzione incentivando la lascivia e la prostituzione. Era ovvia la pericolosità politica del contagio del quale egli era capace nei confronti del popolo. Tuttavia la sua ambiguità e sfrenatezza sessuale ci rimangono incomprensibili se non le iscriviamo all’interno del concetto di androginia della divinità di cui egli stesso era il primo sacerdote. Ed è precisamente in questo senso che comprendiamo il motivo del rigetto politico, morale, culturale e cultuale delle sue usanze da parte del tradizionalismo romano. Non i semplici vizi scandalizzarono i romani ma l’iscrizione di tali vizi all’interno di una pratica cultuale che pretendeva di dominare sulle altre e su sul culto di Giove stesso[9] (enoteismo). Il siriaco non si limitò ad invadere la politica con la licentia e la sregolatezza; egli invase lo stato romano con una vera e propria religione erotica delle opposizioni che aveva la sua massima espressione nell’androginia dell’omonima divinità della quale Elagabalo era il massimo celebrante e verso la quale egli stesso tendeva. È precisamente in virtù della sua androginia, della sua identità sessuale neutra e allo stesso tempo doppia[10] che egli nelle fonti è qualificato come bestia, mostro, creatura indefinibile[11]. In qualità del suo non essere vir, condottiero, uomo (nell’accezione fallocratatica della cultura romana) venne quindi negata la sua humanitas medesima, configurandolo definitivamente come nemesi e opposizione totale.

NOTE
[1] Saverio Gualerzi, Né uomo, né donna, né dio, né dea - Ruolo sessuale e ruolo religioso dell’imperatore Elagabalo, Bologna, Pàtron, 2005, pag. 66.
[2] Ivi, pag. 33.
[3] Ivi, pag. 17.
[4] Ivi, pag. 33.
[5] Ivi, pag. 25.
[6] Antonin Artaud, Eliogabalo o l’anarchico incoronato, Milano, Adelphi, 1998, pag. 116-117.
[7] Ivi, pag. 116.
[8] Saverio Gualerzi, Né uomo, né donna, né dio, né dea - Ruolo sessuale e ruolo religioso dell’imperatore Elagabalo, Bologna, Pàtron, 2005, pag. 36-37.
[9] Ivi, pag. 74.
[10] Saverio Gualerzi spiega molto bene il nesso tra le divinità di origine arcaica e/o orientale e il concetto di androginia la cui espressione è sia la categoria del neutrum («assenza della caratteristiche di entrambi i generi sessuali in un soggetto») che dell’utrum («compresenza delle caratteristiche di entrambi i generi sessuali in un soggetto»). Egli evidenzia inoltre l’analogia esistente tra androginia e l’aniconicità della pietra nera (l’oggetto sacro del culto di Elagabalo) che l’imperatore fanciullo condusse nell’Urbs dalla Siria. Ivi, pag. 77.
[11] Difatti: «Pure il macabro trattamento riservato al cadavere di Elagabalo pare motivato non tanto dal disprezzo, quanto dall’accanito tentativo di cancellare del tutto, tramite lo strazio, lo smembramento e l’eliminazione finale, l’identità umana di quell’imperatore che già in vita non era considerato homo bensì belua. Egli, per di più, sfidando esplicitamente il rigido inquadramento romano in categorie di appartenenza, secondo la sua volontà di apparire al contempo uomo e donna, imperatore e sacerdote, umano e divino, confuse a tal punto i suoi contemporanei da fare desiderare ai suoi aguzzini la completa dissoluzione di una creatura che non erano in grado di definire. A ciò si aggiunga che il particolare tipo di tortura inflitto al cadavere di Elagabalo prima della sua precipitazione nel Tevere, cioè l’essere trascinato pubblicamente (sin dai tempi omerici atto coincidente con la massima forma di oltraggio) attraverso le strade di Roma, era anche il metodo privilegiato per annullare ogni residuo di identità del defunto». Ivi, pag. 52-53.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Artaud, Antonin, Eliogabalo o l’anarchico incoronato, Milano, Adelphi, 1998.
Saverio Gualerzi, Né uomo, né donna, né dio, né dea - Ruolo sessuale e ruolo religioso dell’imperatore Elagabalo, Bologna, Pàtron, 2005.

BIBLIOTECA CORRELATA
Artaud, Antonin, Eliogabalo o l’anarchico incoronato, Milano, Adelphi, 1998.

Alessandro Chalambalakis - los@ctonia.com