Stefano
Valbonesi
Questa è roba grande
[Tutti i diritti riservati]
«La gente è una merda, cumpà. Va in chiesa, lavora
ed è tutta sorrisi. Poi in casa si fa i conti, e trova un motivo
del cazzo per sclerare e fotterti.»
Il tizio era quello indicatomi. Non lo avevo mai visto prima. Era
lungo e secco, avvolto in una maglia troppo grande. Parlava come un
filosofo, con la voce che si accartocciava nel catarro.
«Si sballano con le stronzate e si sentono tutti degli dèi.»
Io annuivo già da mezz’ora, nell’attesa che finisse
la sparata e il suo superalcolico. Non mi guardava neppure in faccia,
ma fissava un punto perduto nell’oscurità. Il locale
non era malvagio. Stavamo in un angolo, buttati dietro a un tavolo.
C’erano poche luci soffuse. Un mare di sagome scure e il fumo
di sigarette ci dividevano dal palco, dove una ragazzina si strusciava
addosso a un palo.
«Ma da stanotte si fa sul serio. Farò un grande regalo
alla gente.» Batté la mano sul marsupio che aveva appoggiato
sul tavolo. «A pochi privilegiati, a dir la verità. E
tu sei uno di questi.»
Sorrisi. Michele me lo aveva detto che era un tipo strano.
«Per te e altri pochi fortunati sta per cominciare la grande
festa.»
«La grande festa?»
Lui sorrise soltanto. Scattò in piedi come una molla, e mi
fece cenno di seguirlo. Superammo una porta con una targa dove c’era
scritto “Riservato”, e ci trovammo in un bagno ben tenuto,
con la luce dei neon che spazzava il pavimento. Doveva avere qualche
aggancio con il padrone del locale. Lì mi mostrò il
suo articolo.
«Sembra una medicina.»
«Questa è roba grande, cumpà. Stai così
duro che al confronto le paste sono un bicchiere d’acqua. Rispetto
a questa il talco manco lo senti.»
Agitava la fiala in una mano ossuta. Notai il palmo sporco di terra
e le unghie gialle coperte di croste. Poteva essere anche un poliziotto,
per quel che ne sapevo.
«Lucido e schizzato contemporaneamente? Ma che dici?! E per
farmi ‘sto trip mi riduco come te?»
Si fece una risata, ma sembrava soltanto che qualcuno avesse passato
la carta vetrata su un piano di legno.
«Cumpà, stai tranquillo. Te la spari in vena lentamente,
e la fattanza è assicurata. La cosa bella è che sei
sempre sveglio e lucido, anche quando schizzi. Gli altri non si accorgeranno
di nulla, ma tu, invece… »
Osservai la fialetta. Color ambra. Dentro, un liquido trasparente
con qualche bollicina.
«Non è che mi stai rifilando della semplice fisiologica?»
«Senti, cumpà, se non la vuoi, me ne vado. Non posso
stare qui a perdere tempo. Io ho clienti seri, e devo fare un lungo
giro.»
Il chiodo umano stava per sgusciare fuori dal bagno, ma io lo afferrai
per una spalla. Sentii la sua lunga clavicola che sporgeva sotto la
felpa, la potevo quasi afferrare come la maniglia di una valigia.
Cercai di trattenere lo schifo. Non potevo sprecare così l’occasione.
Era il mio compleanno, e mi dovevo fare un regalo da sballo, unico.
Le parole furono automatiche.
«D’accordo, dammene una.»
L’uomo si voltò, e mi sgranò tutti i suoi trentasei
denti marci.
Almeno non era un poliziotto. Mi allontanai
dal locale con cinquanta euro in meno, salii in auto e me ne andai a
girare per la campagna. Svoltai per una strada sterrata che portava
a una cava esaurita. Attorno, solo boscaglia. Spesso ci andavano le
coppiette, ma un posto deserto lo trovavo sempre.
Spensi il motore e mi denudai il braccio sinistro. La novità
dell’anno me la facevo da solo. Per me era una regola essere solo,
in qualsiasi cosa facessi. Non che me ne importasse qualcosa: avevo
smesso da tempo di cercare compagnia. In realtà, credo che non
ci fosse nulla che avesse importanza per me.
Laccio e siringa erano nel vano del cruscotto ed ero un infermiere che
sapeva fare il suo lavoro, anche se i miei colleghi di reparto sparlavano
di me con i medici, dicendo che rubavo la morfina e che non avevo pazienza
con i degenti. Rimasi a guardare quella fiala per un bel po’.
Cristo! Poteva anche essere merda che mi avrebbe spedito all’altro
mondo! Ma il nome di quel tizio e la novità dell’anno me
li aveva fatti Michele, uno di ortopedia, e come pusher non mi aveva
mai dato una buca. Bella questa.
Spinsi lo stantuffo lentamente. Quando arrivai in fondo mi dissi: «Buon
compleanno!» e fissai l’orologio per immortalare il momento:
erano le due di notte. Per certe cose sono un romantico, peccato che
nessuna donna si sia mai avvicinata abbastanza per apprezzarmi. I dieci
minuti successivi rimasi in apnea. Mi scoccia dirlo, ma me la stavo
facendo sotto. Avevo paura di morire: stavo buttato contro il sedile,
ad attendere che il cuore mi scoppiasse. Ma le convulsioni non arrivarono.
Né sangue dalla bocca né dolori. Dopo mezz’ora anche
il cuore – che batteva tanto da farmi male al petto – si
rilassò. Ero così calmo che cercai in tutti i modi di
scoprire qualche cosa di strano. Mi misi in agguato, ad ascoltare il
sangue pulsare nelle vene, ad attendere qualche flash negli occhi, che
la schiena s’indurisse o che la testa si sciogliesse come zucchero
nell’acqua. Niente. Mi ero appena sparato chissà che cosa
in vena, e non ero vittima neppure di uno stramaledetto effetto placebo.
Un’ora dopo ero incazzato. Quel bastardo mi aveva venduto della
semplice soluzione fisiologica. Tempestai il cruscotto di pugni, sbavando
come cane rabbioso. Alla quinta bestemmia, però, tutto divenne
di colpo nero e rimasi secco sul sedile.
Quando rinvenni, gli occhi inquadrarono
subito l’orologio della macchina: le sei meno dieci. Per fortuna
che era domenica e che nessuno era casa ad aspettarmi. Era stato il
miglior sonno che avessi mai fatto. Di solito mi svegliavo incazzato
con il mondo e con un alito di fogna. Ora, invece, mi sentivo fresco
e avevo una sensazione di calma che non avevo mai provato. Mi sentivo
come se fossi un po’ brillo, ma senza che la testa mi girasse:
leggero e vuoto. Sentivo il mio cranio come un terrazzo all’attico
di un grattacielo, pulito e spazzato da un vento freddo. Se provavo
a concentrarmi su una cosa qualsiasi, il pensiero si fissava subito
in mente, e appena me ne disinteressavo spariva, dileguandosi come il
fumo di una sigaretta.
Il sole doveva essere già sorto, ma fuori s’era alzata
la foschia, e vedevo solo gli alberi inghiottiti dal cielo bianco. Mi
guardai allo specchietto, ma ero normale. Occhi vigili e nessuna espressione
idiota sulla faccia.
Mi ricordai della fiala e non sapevo cosa pensare: non era successo
niente, però non mi spiegavo quella botta di sonno improvviso.
Che il tizio mi avesse rifilato un anestetico? Ma mi ero sparato la
soluzione in vena, e in questi casi un anestetico agisce subito, o dopo
un certo tempo non può dare degli effetti così potenti.
Alla fine, l’unica cosa certa era che mi ritrovavo con cinquanta
euro in meno. Provai ad arrabbiarmi, ma non ce la facevo. Sembrava che
la cosa non mi riguardasse neppure. Vedevo il pusher con le sue braccia
scarne, la fiala, il suo sorriso marcio; sentivo le sue assicurazioni
sullo sballo, ma non mi faceva nessun effetto.
Eppure la mia festa era finita nel cesso. Speravo di provare qualcosa
di diverso, ma invece non era successo niente. Tutto come sempre, e
mi parve strano che non mi venisse neppure un insulto per concludere
la faccenda. Accesi la radio e ripresi la via per casa.
Fu allora che mi accorsi del mal di stomaco. All’inizio era solo
un brontolio, poi a poco a poco il fastidio si fece più intenso.
Avevo fame. Effettivamente, avevo mangiato poco la sera precedente,
però non mi sarei mai immaginato un tale buco nello stomaco.
Dimenticai anche lo spacciatore e strinsi con forza il volante. Nessun
autogrill, bar chiusi, ancora venti chilometri fino a casa.
E la polizia. Sul lato della strada. Su questa strada poco trafficata
non ce li avevo mai visti. Una paletta. Mi fecero segno di accostare.
L’agente si avvicinò e io abbassai il finestrino.
«Buongiorno, signore. Mi può mostrare patente e libretto?»
Un giovane sbarbato con gli occhi troppo azzurri e indagatori.
«Certo.»
Scovai i documenti nel vano del cruscotto, e glieli porsi. Lui andò
verso la volante con il collega. Fu allora che arrivò la prima
vampata. Io le chiamo così. Qualcosa torse il mio stomaco come
se fosse uno straccio bagnato da asciugare. Il dolore salì al
petto, e quando arrivò al cervello non era più male, ma
eccitazione. Sapevo esattamente quello che volevo fare. La mia mente
era sgombra e concentrata. Nel bauletto lasciato aperto cercai il bisturi,
uno dei tanti souvenir che mi piaceva portar via di nascosto dalla medicheria
del mio reparto.
Poi, tutto fu automatico.
Udirono i miei passi sull’asfalto umido ed entrambi si voltarono.
Avevo il manico ben stretto nel pugno. Ebbi il tempo per due colpi.
Con il primo affondai come uno spadaccino: di punta, potente e con la
lama dritta al pomo d’Adamo del poliziotto sbarbato. Lui alzò
le braccia al viso per difendersi, ma con un secondo scatto gli ficcai
la lama in pancia.
Mi girai verso l’altro, e fu allora che udii gli spari. Vedevo
l’uomo dritto davanti a me – un tipo robusto e dalla mascella
squadrata - con le gambe divaricate e ben piantate per terra. La mitraglietta
fumante. Dapprima pensai che avesse sbagliato clamorosamente la mira
contro un bersaglio che stava solo a qualche metro da lui.
Poi mi assordì ancora con altri spari e sentii dei colpi in pancia.
Persi l’equilibrio e caddi. Rimasi immobile qualche istante. Che
c’era da dire? Ero morto. Avevo fatto l’ultima stronzata
della mia vita e ora morivo. Invece, non sentivo dolore ed ero vigile
come se non fosse successo niente. A quel punto provai ad alzarmi e
la cosa non fu affatto difficile. Abbassai lo sguardo e vidi dei buchi
sull’addome e sul petto. Il sangue colava sopra i pantaloni. Lo
sentivo anche dentro le mutande. Ho pensato “ok, sono morto”;
ma quel pensiero sparì e io non morivo.
Ci fu un minuto di assoluto silenzio. Non so chi era più sconvolto
di noi due: io o l’agente. L’altro, quello accoltellato
e riverso per terra, non era nei miei pensieri. Poi la cosa fu divertente:
mi disse di gettare il coltello, di stare fermo, e io pensai che queste
cose me le avrebbe dovute dire prima di sparare. Cominciavo a essere
veramente su di giri anche se la mia espressione non deve essere cambiata
molto. Ogni vampata che mi arrivava dalla pancia mi rendeva sempre più
eccitato. Mi avventai su di lui, e quello continuò a sventagliare
raffiche di mitra inutilmente. Quando gli arrivai davanti, gli vidi
la sclera bianca degli occhi e un’espressione d’imbecille
integrale sul viso. Non riusciva a staccare le mani dall’arma.
Passargli il coltello in gola e aprirgli una seconda bocca fu un affare
veloce.
Tornai verso il primo agente. Si muoveva appena e il sangue gli aveva
inzuppato la divisa. Gli assestai una serie di calci su un fianco -
sentii qualcosa che si rompeva – e poi con la lama gli rivoltai
la trachea all’aria.
La strada era vuota, ma non me ne sarebbe fregato nulla anche se fosse
passato il papa.
Afferrai i due corpi, e mi sorpresi appena della forza che possedevo:
li tenevo per una gamba, ciascuno con una mano sola. Senza grossi problemi
riuscii a trascinarli via e li portai fuori dalla vista, dietro un fitto
canneto che interrompeva una serie di campi. In mezzo a tutto quel sangue,
la testa prese quasi a girarmi, ma non dallo schifo. Il mio stomaco
sembrava impazzito, sembrava quasi che gli ordini venissero da lì.
Mi stavo sbavando addosso. Non fu difficile capire come far passare
quella dannata fame.
Avevo lasciato i corpi spolpati dietro
il canneto, pozzanghere e strisce di sangue nell’area di sosta.
La volante, con le portiere aperte come le cosce di una puttana, era
rimasta abbandonata lungo la strada deserta e silenziosa. Avevo steso
qualche foglio di giornale sul sedile, e con la radio a palla ero scappato.
Quando arrivai a casa e parcheggiai la vettura in garage, mi accorsi
che avrei dovuto ricomprare il coprisedile e il tappetino. Avevo preso
l’ascensore e mi ero ficcato nel mio appartamento senza incrociare
nessuno. L’ascensore lo avrei ripulito dopo, e se qualcuno mi
avesse chiesto qualcosa, avrei inventato una scusa qualsiasi.
Mi buttai nella doccia, e rimasi lì a guardarmi. Dal collo fino
alle cosce sembravo una specie di suolo lunare, con tanti crateri dagli
orli rossastri dove l’acqua rimbalzava. Ma mi attirò una
cosa: un buco più grande in mezzo al petto, in direzione dell’aorta.
Non ci avevo fatto molta attenzione, ma non mi pareva di aver visto
fiotti di sangue spruzzare in faccia ai poliziotti. Misi un dito lì
dentro e lo affondai fino alla nocca. Con il polpastrello toccai le
pareti dure dello sterno, poi dei tessuti umidi e spugnosi. Nessun dolore.
Uscii dalla doccia, e fu solo allora, seduto in accappatoio sul bordo
della vasca, che ebbi il mio primo istante di silenzio dal risveglio.
Stavo ancora pensando a quello che avevo fatto, ma non ero terrorizzato.
Cercai in qualche modo di tirare fuori lo spavento, ma più riflettevo
su quello che avevo fatto, più stavo bene. Nessuna traccia della
paura. Non mi soffocava, non mi premeva contro le tempie. Non batteva
neppure, perché il mio cuore era fermo.
Lo notai, ma la cosa non mi sconvolse più di tanto. Voglio dire,
mi ero già dissanguato, avevo addosso chili di piombo che avevano
frullato i miei visceri. Forse avevo accettato l’idea di essere
morto senza rendermene conto, ed era l’unica cosa che potevo pensare,
oltre a quella di essere intrappolato in un incubo. Solo in quel momento
mi accorsi che non respiravo più. Il respiro è un atto
naturale, lo fai senza volerlo, e non ci fai neppure caso. Io non avevo
più bisogno di respirare, e la sua mancanza non l’avevo
notata. Forzai un respiro: l’aria entrò e uscì,
ma non dalla bocca, bensì dai buchi di proiettile che mi avevano
forato i polmoni.
Alle otto di sera stavo da Dio. I miei
pensieri erano semplici, veloci e chiarissimi. A dire la verità,
non credo che il mio cervello abbia mai funzionato così bene
come ora che sono morto. La prima vampata non me l’ero goduta,
a dire il vero. L’avevo scambiato per un dolore. Ora la sentivo
per quello che era: solo eccitazione, desiderio e voglia di spegnerlo.
Mi sentivo teso e duro, come quando guardavo un bel porno o le puttane
in macchina al Viale degli Ulivi.
Sinceramente, mi sto ancora chiedendo se Michele sapesse che razza di
roba vendesse quel tizio. Non gli telefonai perché c’erano
cose più importanti che attiravano la mia attenzione.
Per esempio, qualche ora prima avevo scoperto che la mia carne si stava
indurendo. Mi ero messo a giocare con un coltello in cucina e, dato
che ero sopravvissuto alle pallottole, volevo esplorare la resistenza
della pelle, magari divertirmi a fare dei bei tatuaggi sulle braccia.
Avevo premuto la lama contro il bicipite, ma la punta non riusciva a
squarciarlo: la carne affondava ma non si apriva. La toccai: aveva assunto
una consistenza a metà fra una plastica compatta e l’acciaio.
E ogni ora che passava, diventava più dura. La cosa mi strappò
un sorriso.
Poi cominciai a chiedermi com’era possibile che fossi vivo ma
morto; che riuscissi a parlare se avevo i polmoni forati e non riuscivo
più a respirare. Cose di questo genere. Alla fine, però,
mi stancai di tutte queste domande, perché in realtà non
mi interessavano.
Fissai lo schermo vuoto del televisore, quella superficie che rifletteva
la mia sagoma distorta. Sul vetro opaco capii che forse la mia morte
era avvenuta quando mi ero addormentato in macchina, dopo aver provato
la novità dell’anno. Cominciavo a vedere lo spacciatore
della sera sotto una luce diversa. Lo aveva giudicato con troppo cattiveria.
Invece, mi aveva fatto davvero un bel regalo. La roba che mi aveva dato
era veramente grande. Cominciai a valutare le possibilità del
mio nuovo stato, e i pensieri erano limpidi e dicevano poche cose essenziali.
Inoltre, provenivano tutte dal mio stomaco. Cominciai a ridere come
un pazzo.
Lo sballo era appena iniziato. Ricordai che il pusher doveva fare un
lungo giro con quella roba. Altri privilegiati come me avrebbero dovuto
buttare coprisedili e pulire macchie di sangue.
Mi alzai e uscii dal mio appartamento. Arrivai all’atrio scendendo
per le scale: non avevo alcuna fretta. A ogni piano sentivo le voci
provenire da dietro le porte: gente che rideva, bambini che piangevano
o che gridavano, i rumori di piatti posati sulla tavola per la cena,
una voce che cantava, lo scroscio di una doccia. Mi sentivo infinitamente
grande rispetto a queste persone, come se io fossi il padrone e loro
polli chiusi in piccole gabbie.
Fuori dell’atrio mi fermai un momento e guardai le case intorno,
le luci alle finestre. Condividevo le riflessioni dello spacciatore
sulla maggior parte della gente. Il mio stomaco mi diceva che c’era
una nuova prospettiva.
Come puro gesto scaramantico presi una boccata di buio, e per cominciare
scelsi una via a caso.
Stefano Valbonesi - s_valbonesi@virgilio.it