Marco
Taddei
L'Arredamento
del Nulla
Prendasi
un luogo e lo si misuri in tutte le sue direzioni, lo si ispezioni in
tutte le sue direzioni. Luogo vuoto, finito, non arredato, magari luogo
senza nemmeno pareti, senza tetto, luogo non delimitato, senza paletti,
o dogane, o cordoni di poliziotti che controllino i margini slabbrati
della coscienza di quel vuoto di essere luogo.
In un certo senso il nulla è conscio della propria vacuità
e se ne rammarica. Certo non è nato per essere nulla; o meglio
il contatto con il tutto lo frustra spingendolo osmoticamente
verso il completamento, l'arredamento per così dire, la sua tuttità
gli comunica arrogantemente chiaramente che niente è nulla.
Il Nulla, nato vuoto e trasparente, vorrebbe essere coloro e pieno,
vorrebbe essere mole, peso e massa, stazza, scafo e sarcofago.
Il Nulla, nel suo galleggiare inerte nel nullis, si ritrova
a parlare da solo, a dare di matto, grattarsi freneticamente le braccia,
osserva e calcola l'intervallo tra un tic e l'altro, il fioccare incontrollato
del sebo dalla sua calotta spoglia e disboscata sulla sua spalla rinsecchita
e truce. È grafomane, scrive appunti s’un diarietto, una
vecchia rubricola recuperata in una soffitta invisibile del suo conscio
vago e nebuloso, nessun occhio potrebbe arpeggiare quelle paginette,
contare gli accenti, enumerare le virgole, sospendersi lento come un’onda
congelata sui tre puntini di sospensione sparsi ovunque poiché
di sospensione tratta questo congegno graffiato, saggio dell'anima sua
nullica. Un libro illeggibile perché scomposto, incongruo eppure
dotato di indice, numero di pagine, precisa divisione delle sillabe.
Tutto calcolato alla perfezione, regolato in paragrafi metricamente
docili e dondolanti, regolare disposizione degli elementi secondo la
regola dei due terzi, ossa raccolte in un sepolcro secondo le sagge
regole dell'aldilà.
Il Nulla vive in anestesia locale, contempla insensibile il panorama
imploso del suo mondo. È sincero il malessere del nullo
quando appunta la cronaca gelida dell'assenza dell'interlocutore. Al
contrario di quello che sarebbe stato, il suo parlare era sterile, il
suo Verbo era soliloquio, berciare senza speranza, senza luce, i suoi
desideri rimanevano come morti corpi d'insetti, bozzoli digeriti e svuotati
dentro la tela traballante che danza alle correnti assenti prodotte
dall'eco pneumatico delle secche stanze superiori.
Ora
alcuni assiomi sul nulla: il nulla introietta tutto, ma non per fuga dalla
realtà, solo perchè non concepiva sintatticamente il concetto
di creazione e con esso nemmeno quello di condivisione.
È nella natura sua particolare - nella natura del nulla
- trattenere la materia e, in quella, del tutto espanderla regolarla e
contemplarla. Il nulla può solo, uso questa parola sapendo che
è errata, sognarne la modellazione.
Anche se per una semplice questione di abbellimento o imbruttimento di
un luogo egli non può alzar dito, egli non può articolare
il pensiero reificante perchè sarebbe concupito dalla fabbricazione,
dall'organizzazione, dalla manifestazione. È per questo che egli
rimane, ed è, il padrone dell'immanifesto, del velo di tenebra
insquarciabile, dell'incontemplabile pienezza.
Egli è un enigma invisibile e proprio per questo mille volte più
infido, più selvaggio.
Più ragnesco.
Ecco, proprio come ragno se ne stava rintanato a elucubrare il tutto
che ad altri sarebbe spettato portare ai fatti . Era un ideatore,
un poeta, o diremmo meglio un uomo di pensiero e non d'azione. Era un
pioniere con le braccia legate.
Ma anche l'astensione millenaria dalla materializzazione comporta un arbitrario
secernamento.
Non a caso ho usato il termine ‘ragnesco’ per descrivere il
nulla, dato che una volta senza sapere come il suo diorama ineffabile,
il suo presepe imperituro, si coprì proprio di una filamenta ragnica,
una forforica presenza che sonnacchiosa danzava unendo – oh osceno
-, da un capo all'altro, il nulla, bozzando così qualcosa nelle
grandi entragne del non-fatto. Il Nulla quando vide tale parata di inspiegabile
seta rimase bloccato per lo sconcerto, scandalizzato fino alle cangianti
midolla incongrue che lo sostentavano. Non fu l'inspiegabilità
del fatto, una rete di ragno così immensa l'aveva immaginata cento
volte, in un certo senso fu l'improvvida visione della creazione ad un
palmo dal suo naso che lo inebetì. Un peccato selvaggio e brutale
disegnato davanti ai suoi occhi iperurani. Una bestemmia nel senso legittimo
del termine. Nel vago nulla danzava un filo che aveva creato una terribile
separazione. Un sopra ed un sotto, una boccheggiante delimitazione, spontanea
presa di posizione del demone materico. Il Nulla, scafato a mille inettitudini,
fu quasi schiacciato da quella isterica fissazione, da quella saldatura
dello spazio, non più libero di essere ebbro, non più sincero
ma già traditore, menzognero perché promettente qualcosa,
non più vuoto ma già soverchiamente affollato. Che orrore!
Come avrebbe potuto cancellare quella ragnatela inconcepibilmente blasfema
dal suo ardito svuotato pozzo? Quale sentenza superiore gli avrebbe recato
aiuto? Quale immane dito avrebbe potuto annullare ciò che nel nulla
s'era creato?
Riflessioni:
forse lui non era del tutto nullo, ovvero era sì Nulla
ma non nullo di potenziale. Aveva un valore numerico, energetico, un quadrato,
un cubo di se stesso che gli illustrasse cosa poteva essere... poteva
essere altro? Da che mondo è mondo il nulla è lì
fermo, immobile, inappagato perfino, mentre adesso quella pallida essenza
svolazzante, quella fantasmatica membrana - oh medusa dagli occhi pietrificanti
- gli impediva la sua frustrazione, il suo pensiero, il suo essere! Che
diabolico frastuono silenziosissimo!
Forse egli poteva qualcosa? Magari poteva essere l'immane ragno sovrano
di quella tela? Ogni strumentazione ha il suo legittimo proprietario e
lui non era certo il proprietario di quell'ordito minaccevole. Un ragno
dunque doveva accovacciarsi insieme a lui nel suo vacuo grandore?
Ma questo non ha importanza. La domanda funesta è da donde proviene
questo intruso? Forse che l'aveva partorito lui? Come partorirlo allora?
Estrarlo o di tra le gambe oppure espellerlo dalla testa, un’operazione
o magari uno sforzo semplice e tutto cerebrale del meningico intelletto?
Avrebbe potuto osare tanto senza che egli stesso ne avesse sentore? Senza
che coloro – oh numi genitori dei numi!- lo avessero saputo?
Adesso lo stavano guardando coloro? È forse il tutto
che lo tenta con questa pallida sfida? Cova un ragno! No io non
posso, son nulla! Posso covare il non-ragno se tu coverai un ragno, ma
non posso azzardarmi a covare il ragno che tu non hai ancora nemmeno immaginato!
Il Tutto malvagio lo tenta. In un momento di cieca freddezza si rende
conto che la tela potrebbe essere un'esca, una sorta di tentativo da parte
del tutto di incastrarlo. Sentiva il suono esasperato della macchinazione,
la cigola ruota della cospirazione che misurava la sua disperazione. Il
Nulla, senza possibilità di fabulazione se non quella del suo pensiero
sempre più velenoso, iniziò a percepire una sensazione di
soccombenza e immaginava. Immaginava nel suo girovagare per lo sterminato
stazzo deprivato che sopra la grande rete ragna, molto al di sopra, parecchi
strati di nulla al di sopra di essa, avvenissero mercanteggiamenti, si
progettassero rotte e traiettorie intersecanti il suo regno, si elaborassero
grandi giardini pensili, sospettava che qualcuno chiuso nel proprio bunker
stesse architettando ecosistemi, producendosi in plastici, eseguendo calcoli
di pesi e contrappesi, cercando il modo migliore per far cadere raggi
luminosi su di una superficie opaca, scatenando la propria sterminata
fantasia per modellare un sistema di circolazione auto alimentato che
tracimasse oltre confini disegnati dalla coscienza per invadere. Qualcuno
insomma tramava per invadere, suggellare, arredare di pieno il suo regno
nullifero.
Il
Nulla è idraulico perché domina la tubatura o meglio, il
vuoto che veste la tubatura perché già il tubo, le sue pareti
interne ed i suoi margini esterni, sono cose che non lo riguardano, che
non lo interessano, che d'altra parte non comprende. Ciò che non
si capisce non spaventa. Il vero terrore è quando ciò che
non comprendi congiura contro di te. Ed era quello che stava succedendo.
Come preparare un contro-piano a questa strategia minacciosa che è
superiore perché avviene, cade da sopra? Il Nulla non
poteva nemmeno entrare nella mente del congiurato perché non sapeva
nemmeno cosa fosse il congiurato e come agisse. Al tutto non
serviva capirlo, egli era l'attaccante e l'attaccante non si permette
la comprensione, chi si difende invece deve sempre immedesimarsi nell'attaccante
per cercare una via di scampo. Come poter penetrare ciò di cui
si ignora non solo la forma ma anche la manifestazione pensierica? Il
nulla cadde in panico. Vi precipitò letteralmente. Questo lasciò
ancora più spazio a ciò che era su - che da molto tempo
lo contemplava - poté così diffondersi ancor di più.
Lo dominava ogni momento di più. Lo schiacciava. Il Nulla allora
inizia a rifugiarsi nel suo libretto, a celebrare questa sua sensazione
di fine imminente, di minaccia vertiginosamente avviata, immaginando che
qualcuno, qualche altro nulla o qualsiasi altra cosa che veleggiasse
da quelle parti potesse recuperare quel documento, leggerlo e raccontare
a tutti, al tutto magari, come fossero andate le cose dall'altro
punto di vista.
Cercava di scrivere tutto quello che sentiva dentro ma era difficile,
nonostante fosse trasparente come ciò che non è, non riusciva
ad essere sincero appieno, cadeva nell'agiografia con frequenza vergognevole
o nella mezza menzogna scacazzata, nella sozza rielaborazione dei fatti.
La cosa lo sorprese: si credeva essenza sincera e leale, pensava che proprio
tale lealtà fosse la cosa che lo rendesse così longevo,
così benvoluto, così accettato da tutto quello che rombava
oltre il confine idraulico del suo regno molle e profumato. Che bestialità
rendersi conto invece che dentro di lui covava un esteta, un menzognero,
un perdigiorno.
Il
Nulla che attacca il Tutto, con armi inique e goffe, lo assedia con cimenti
invisibili, inadeguati ed innocenti. E il tutto tace, si arrocca dietro
le sue migliaia di declinazioni, le sue innumeri qualificazioni che costituiscono
muragli e baluardi mutevoli. Quanta inutilità in quella molteplicità,
quanta irrequietezza, che profilo volgare ha il tutto, sempre
abbondante di dettagli, aggettivi, salme e zanne. Polimorfo sconforto
sospetto in lui, irrequieto malessere inclassificabile, il suo depresso
girovagare nei suoi compiaciuti creati lo porta a volere espandersi a
più non posso, oltre il senno logico, a conquistare e succhiare
nuovi limes, ad illuminare le tenebre mie nulle, ossute e secche, regno
equo di colui che non ha niente in mano.
E chi l'ha detto? Il reame vuoto è forse più colmo e ubbidiente
del ruggente tutto. Gli uomini vuoti - sudditi solo ideati – porteranno
scompiglio nelle schiere superiori. Chi sa difendersi dal cavo che avanza,
chi può pugnalare un buco, chi può stringere le sue mani
attorno ad un collo effimero, quale arma, bomba, baionetta balista, può
offendere l'esercito che non solo non si vede ma non è nemmeno
schierato. Che vittoria già prevedo. Che stolta la tuttità
a cercare di schiacciare me, il sub-navigatore, il sub-camminatore, il
sub-contemplatore. Furente sarà la mia ira quando muoverà
il primo passo sotto il mio informe cielo svuotato! Che prodezza, lo stesso
concetto di essenza, di sostanza, di logorroico logos verrà alle
mani, si infiammerà per un incitamento ben riferito, per una scintilla
che sprizza da un moschetto, per una palla di cannone che centrerà
in pieno un comandante nemico! Punti di vista antitetici vedranno le loro
budella sparse in terra e le sagome nere che fileranno nel cielo sganceranno
bombe idiosincratiche fatte apposta per scomporre pezzo per pezzo la propria
percezione.
Ma ecco che la tela del ragno mi umetta le labbra col suo dondolio quasi
lubrico. Questo mistero tremante che apparendo ha già minato le
mie regole, ponendo un distinto e un indistinto, creando insomma qualcosa
là dove supremamente non bisognava che ciò fosse nulla,
è la bandiera a mezz'asta del mio lutto, della mia chirurgica sconfitta.
Chi può aver deciso di abbattere così profondamente il mio
spirito se non il nemico che ha seminato, nel mio orto nichilista, questa
messe per abbattere il desio della difesa estrema, della temerarietà.
Essa vuole indurmi allo scivolamento, al lento slittamento valangoso che
mi porterà lemme lemme al nuce delle cose, là sotto,
dove l'umiliazione è un tesoro ricercato e la dimenticanza una
scorta che si custodisce con denti ed unghie seghettati. E parlandone
già mi sento slittare verso quel buio sepolcro, e se alzo lo sguardo
mi sembra di intravedere uno chiarore luttuoso di opaca verminosa lattiginosità
che mi sovrasta, mi rampogna, mi osserva ghignante da una distanza insormontabile.
Che sia l'ombra funesta del Tutto invadente che mi batte senza nemmeno
muovere un pedone sulla scacchiera? Possibile che mi abbia affondato senza
nemmeno indurmi nel sospetto della sconfitta prossima?
La delusione che mi porto ora dentro diviene già una portentosa
catena che mi tiene incastrato nel buio vizioso del di sotto. Sono convinto:
il tutto mi sovrasta, mi burattina con fili di nervi che sanno di abbondanza
e al contempo di carestia. Mi trovo ora in un petrolio le cui capacità
combustibili sono esaurite, un petrolio storto, tarato, ebete, che non
prenderà fuoco ma in realtà consuma tra fiamme invisibili.
Dove sto andando? Giù. Quando mi fermerò? Sospetto mai.
Chi incontrerò lungo questo impozzamento lento ed inesorabile?
Niente se non me stesso ribaltato.
Echi delle azioni del tutto mi giungono da lontano. Lo vedo a
distanza gioire dove io poco prima scrivevo lettere impossibili. Eccolo
che occupa la mia tana con l'accortezza di un pazzo. Già vedo diademi
di cose, isole di creature e palazzi, aggettivi e aliscafi, tigri e vombati,
che crescono come edere attorno ai pilastri del niente. Tutto si irriga
di forza ed energia e la spossatezza, l'ebbra spossatezza del quantico
assente viene squassato via. L'epilettico crescere comporta anche la più
grave bestemmia: gli eventi, avvisaglie del grande peso detto Storia.
Da ciò distolgo lo sguardo – ah il mio pallido ducato di
squinternata vaghezza.
E dire che già meditavo una mappatura del nulla inabitato, un’ecumene
contratta, sferzante presa in giro del grandioso Tutto. Il mio era solo
romanticismo, frondoso romanticismo. Quei mie desideri burleschi mi appaiono
ora spuntati aggeggi inservibili, bambocci senza esperienza che filano
una bagascia. La parola ‘sconfitta’ è fuori luogo,
dato che di scontri non si è udito il clangore, ma è come
se fossi stato preso e posto in pensionamento.
Nello stretto pozzo dove sguscio non ho dicastero, la mia vita condannata
a vagar nel nulla fognoso, escrementizio su cui hanno costruito la loro
reggia. È il toboga dell'anti-nulla, lo scivolo necroscopico, l'abisso
ardito che precipita attorno, sopra di me, dentro di me. Io divengo il
precipizio in cui m'affondo, la trappola di sabbia sottilissima che un
formicaleone con i miei lineamenti e gusti di interior design
mi tende. Caccio la mia stessa carne, seguo la mia traccia districandola
tra migliaia di ramificati fumi che provengono verminosi dallo spazio
attorno che è iride trapassata, sole colubro invisibile che tutto
fissa e congela. Progetto di procurarmi ferite e poi di scapparmi, evitarmi
in una boscaglia che immagino aprirsi improvvisamente nelle pareti del
mio sprofondo. Cado ed apro, cado e disvelo, cado e lacero il sudario
della notte cupa, non raffinata, grumosa come una purea sbadata. È
essa notte stringente e la vedo piena di granchi, anzi no, piena di chele
che mi afferrano con una morsa molle non per fermarmi ma solo per fastidiarmi,
pizzicarmi, ludibriose, vedo le chele che sussultano, che ridacchiano,
chele che sono facce con bocche e senz'occhi, odo rintocchi, mi sciolgo,
mi dileguo, scompongo in pezzi che si confondono, coriandolo me stesso
come per scherzare, eppure è il mio essere che si sbriciola e sbrindella
tra i nervi e i muscoli di questa mia scivolosa dimora. Mi inorridisce
il buco in cui sono arrivato dopo il mio vuoto viaggio, inebetente e coatto,
luogo da tarme, bruchi-vermi e meduse, da esseri inferiori. Li odo strisciare
mi pare, li odo fiutarmi, li odo che brucano nel sotto di me. Forse non
sono animali, ma brani, pezzi, segmenti di animali, come le chele che
mi hanno canzonato poco prima. Mi sento avvolto dalla membrana che i pipistrelli
indossano per planare nella notte. Un sudario che è anche vestito
da sposo. Sono completo ora, afferro il procedimento lineare del tempo.
Mi piace il suo squilibrare, il suo irraggiarsi in ogni direzione da nessun
punto, creare una trama di fiori appassiti estratti da libri dimenticati.
Il tempo qui è un odore, un vento che porta tumori, un pozzo ingravidato.
Mi agghiaccio, mi sento cibo di qualcuno, non sono più padrone
delle mie viscere, non sono più padre ma sono figlio divorabile,
non sono più fuori ma sono dentro, non sogno più ma sono
sognato. Dove sono? Sono la lapide oppure sono il corpo nel sarcofago?
Sono l'albero o la scimmia dondolante?
E cosa vedo laggiù, la libertà, quelle pudenda che tutti
puntano ad annusare? Cos'è quella cosa che risuona, col suo semplice
riverberare, una luce argentea di astro? Che porcata che è stata
quella di farsi espugnare senza nemmeno permettere l'assedio, che debole
il mio polso che non è riuscito nemmeno a stringere un pelo ritorto
di quell'irsuto primate del Tutto! Ma che senso ha adesso questo vaneggiare,
questo singhiozzare? Sono forse arrivato alla fine del mio viaggio e quindi
al luogo da cui non tornerò di cui scorgo già l'uscio laggiù?
Beh si direbbe una struttura elaborata, raffinata, quasi sospesa, palafitta
perfettamente equilibrata nella sua complessa mostruosità peristaltica.
La sensazione del morire è dunque così simile al piovere
col sole? Che cos'è quella dissaldata costellazione se non la mia
rete di ragno?
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