Dan Alessandro Sabatta À l'intérieur Parigi.
Vigilia di Natale. Notte. L’idea
che nasce, il compito, la missione… il gioco. Gioco raffinato
di scatole cinesi? Gioco dell’infante che sventra il balocco
per vedere come è fatto dentro? Gioco in cui si vince
o si perde? Dopo la messa in scena dell’orbita tagliata, la
volontà di tagliare l’orbita di chi di fronte alla scena
ha scelto di piazzarsi (noi). Come farlo? Eviscerando l’o-sceno,
mettendolo in-scena e farlo con precisione, in maniera
programmatica, inesorabile, spietata: giocando. Paralizzati
tra il dinamismo esterno e l’immobilità turbata ci troviamo,
volenti o nolenti, a riconoscere la grandezza di ciò a cui
stiamo per assistere e accettiamo lo sforzo a noi richiesto. Sopportiamo
perché rispettiamo. Allo stesso tempo il metodo dell’inaudito
gioca uno scacco superbo alla suddetta mente che partorisce
l’arroganza della visione, tanto da indurre in lei la più
meravigliosa delle idiozie. Perde prima la mente, poi la mano, i talenti
e le ispirazioni; rimane la fredda e disciplinata (rassegnata) volontà
di portare a termine la visione, di rivendicare l’esposizione
del dentro, che nell’estrazione fisica di un feto raggiunge
e ottiene l’effetto della più profonda penetrazione emotiva.
Ed è questa la catarsi a cui giunge film, catarsi della mente
imbecille, ma devota, e implosione del cuore di chi con lo sguardo
a quella mente e a quella mano lenta si è affidato. Giungiamo
stremati al cuore, dentro il feto, dentro il ventre gravido, dentro
la stanza, dentro la casa dove À l'intérieur
nasce, cresce e muore. E in questo luogo di confluenza di emozioni
e frustrazioni (umane) rimaniamo senza parole, perché come
diceva Cioran «finché si vive al di qua del terribile
si trovano parole per esprimerlo; appena lo si conosce dall’interno,
non se ne trova più nessuna». Dan
alessandro Sabatta - evabraun@hotmail.it |