Dan Alessandro Sabatta

À l'intérieur

Parigi. Vigilia di Natale. Notte.
Fuori, l’infuriare delle rivolte nelle banlieues.
Dentro, protetta dalle mura di una casa, una donna attende.
Fuori dalla casa, una donna in nero attende.
Dentro il ventre gravido della prima donna, una creatura di nove mesi attende.
Chi è la donna in nero? Non lo sappiamo. Cosa vuole? Entrare. Dove? Dentro. Vuole entrare dentro la casa, per impadronirsi della donna che al suo interno vive. Vuole entrare dentro la donna che vive nella casa, per impadronirsi della creatura che all’interno del suo corpo si sta preparando a vivere.
…e così il gioco ha inizio…

L’idea che nasce, il compito, la missione… il gioco. Gioco raffinato di scatole cinesi? Gioco dell’infante che sventra il balocco per vedere come è fatto dentro? Gioco in cui si vince o si perde? Dopo la messa in scena dell’orbita tagliata, la volontà di tagliare l’orbita di chi di fronte alla scena ha scelto di piazzarsi (noi). Come farlo? Eviscerando l’o-sceno, mettendolo in-scena e farlo con precisione, in maniera programmatica, inesorabile, spietata: giocando.
La mente (o in questo caso le menti, due per la precisione, ma continuiamo a parlare al singolare) che sta dietro alla mano che muove la telecamera al gioco si presta e accetta le regole: dimenticare i trucchi del mestiere, rassegnarsi al magnetismo dell’idea-compito e seguire l’obiettivo cimentandosi il meno possibile con artifici stilistici. In poche parole, non interferendo più dello stretto necessario in quel percorso di visione che trascina (lei-loro) e spinge (noi) dal dentro al dentro del dentro.

Paralizzati tra il dinamismo esterno e l’immobilità turbata ci troviamo, volenti o nolenti, a riconoscere la grandezza di ciò a cui stiamo per assistere e accettiamo lo sforzo a noi richiesto. Sopportiamo perché rispettiamo. Allo stesso tempo il metodo dell’inaudito gioca uno scacco superbo alla suddetta mente che partorisce l’arroganza della visione, tanto da indurre in lei la più meravigliosa delle idiozie. Perde prima la mente, poi la mano, i talenti e le ispirazioni; rimane la fredda e disciplinata (rassegnata) volontà di portare a termine la visione, di rivendicare l’esposizione del dentro, che nell’estrazione fisica di un feto raggiunge e ottiene l’effetto della più profonda penetrazione emotiva. Ed è questa la catarsi a cui giunge film, catarsi della mente imbecille, ma devota, e implosione del cuore di chi con lo sguardo a quella mente e a quella mano lenta si è affidato. Giungiamo stremati al cuore, dentro il feto, dentro il ventre gravido, dentro la stanza, dentro la casa dove À l'intérieur nasce, cresce e muore. E in questo luogo di confluenza di emozioni e frustrazioni (umane) rimaniamo senza parole, perché come diceva Cioran «finché si vive al di qua del terribile si trovano parole per esprimerlo; appena lo si conosce dall’interno, non se ne trova più nessuna».
À l'intérieur è un’opera unica, coraggiosa, oltraggiosa ai limiti della tollerabilità, un film che rimane e che di certo rimarrà. E rimarrà a voi, terminato l’assedio, allo svanire dell’ultimo titolo di coda, quando direte a voi stessi «ho soltanto visto un film», la strana sensazione di aver mentito spudoratamente.
I difetti in questo tripudio di bellezza e dolore? Ci sono. Ma i difetti, i piccoli fallimenti di questo film, più che frutto di incapacità o sbadataggine non son altro che le conseguenze tragiche e ben accette della paura di riuscire.

Dan alessandro Sabatta - evabraun@hotmail.it