Giuseppe Bornino Luis Buñuel: auscultare gli idoli per trasvalutarli
Tra
le forme religiose consacrate nei paesi civilizzati Georges Bataille – La religione surrealista
«Un'altra guarigione, in certe circostanze ancora più desiderata da me, sta nell'auscultare gli idoli ... Vi sono nel mondo più idoli che realtà: è questo il mio «cattivo sguardo», il mio «malocchio» per questo mondo, e questo è anche il mio «cattivo orecchio»…». Così recita una parte della prefazione al nietzscheano Crepuscolo degli idoli, una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti di quei boriosi valori che, arrogantemente, da tempo immemorabile, si auto-elevano a gestori cosmici e conquistano l'assenso delle inermi masse. Ma in che termini Nietzsche conduce quest'assalto al fortino degli eterni idoli? Ponendo domande con il martello... Non ha importanza di che fatta sia il martello, è sufficiente che si usi. Nietzsche si è servito di parole, scardinanti parole; Luis Buñuel (Calanda, 1900 - Mexico City, 1983) di immagini, dissacranti immagini. Come Nietzsche, il regista aragonese, ha auscultato le putride viscere degli atavici idoli al fine di sconfessarne il presunto eterno valore. È un percorso cinematografico, quello di Buñuel, tutto teso a smascherare le palesi falle di una realtà popolata non da uomini, ma da simulacri ambulanti, schiavi di falsi e ideologici pseudo-paradigmi di origine etica, religiosa, politica e filosofica. Buñuel non è uno di quei registi prezzolati che mette in scena le umane virtù con un tocco di insano patetismo, ma un autentico maestro della settima arte che dipinge sulla pellicola i devastanti, umilianti, bestiali effetti delle umane passioni, intese, in senso spinoziano, come ciò che ci affeziona. Esaltare le virtù è stato troppo spesso fanatico ed esiziale, descrivere le passioni, in Buñuel, è stato invece sia rilevante sotto il profilo antropologico che necessario per far breccia nella morale dominante.
In
questo senso, il compito oneroso di chi assiste allo spettacolo cinematografico
di Buñuel è quello di cogliere le domande martellanti
che costellano i suoi film con il precipuo intento di evidenziarne i sottintesi
filosofici. Si seguirà quindi un percorso diacronico all'interno
della sua produzione, nel tentativo di far emergere e rilucere, di volta
in volta, il sostrato filosofico, inteso in senso ampio, presente nei
suoi film.
È il medesimo spirito che anima il Manifesto del surrealismo, dove Andrè Breton così definisce il suo movimento culturale d'avanguardia: «Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero[...] Il surrealismo si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme di associazione finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita». Il surrealismo, così definito, si configurerebbe quindi come il viatico per la liberazione totale del pensiero. Prendiamo la scena d'esordio del film: un giovane Buñuel agita una lama di rasoio, poi, attratto dalla visione di una nuvola sottile che attraversa la luna come a separarne la parte superiore da quella inferiore, proprio come nel sogno raccontato all'amico Dalì, recide con il rasoio medesimo l'occhio di una giovane fanciulla. Questo in un'alternanza di immagini che mostrano il passaggio della nuvola e la macabra recisione. È
questo il reale funzionamento del pensiero? Gli automatismi della nostra
psiche, considerati nella loro purezza, ovvero nel loro carattere originario,
possono dare luogo ad associazioni così macabre e surreali? La
cronaca nera, a noi coeva, ci fornisce la risposta. L'eterna lotta dell'uomo
con il pensiero, nel surrealismo, è vinta dall'uomo. La poetica
surrealista compie e si basa su di un movimento di libertà della
mente svincolato da qualsiasi veto morale. Buñuel mette in scena
le connessioni più recondite del nostro intelletto, un intelletto
creativo, vivo, solo apparentemente astratto, ma in realtà pienamente
antropomorfico. È l'uomo a servirsi del pensiero, a costringerlo
a pindariche trasvolate; è l'uomo che dispensa la sua libido e
vivifica quei remoti processi mentali, altrimenti morenti.
La seconda scena di Un chien andalou che merita un attento commento altro non è che la rappresentazione del sogno di Dalì, di cui si accennava sopra. Un uomo, il protagonista del film, l'attore Pierre Batcheff (suicida a 25 anni), osserva tra l'estasiato e l'incuriosito l'emergere dal palmo della sua mano di una serie interminabile di insetti. Buñuel ci mostra la genesi dell’intuizione che attinge a gradi superiori di realtà; è come se ogni singolo insetto rappresentasse un portato psichico che spinge per bagnarsi di luce. L'intera pellicola è disseminata di immagini e situazioni insolite, irreali e che si accostano senza soluzione di continuità e senza intessere neanche un filo di trama.
Poetiche
blasfeme, pungenti osservazioni delle dinamiche individuali più
scomode e demistificazioni delle ideologie che reggono il potere, operazioni
ardite, peculiari soprattutto del primo cinema Buñueliano, non
potevano non incorrere in censure: pensiamo al lungometraggio surrealista
L'âge d'or (1930), dove la blasfema visionarietà
anticlericale e antiborghese condurrà la pellicola inizialmente
alla censura e poco dopo direttamente al bando. Il film verrà riproposto
nuovamente soltanto nel 1950 a New York e nel 1951 a Parigi. Se il Bruto è un personaggio anomalo, un emarginato disposto a tutto pur di sbarcare il lunario, il protagonista di Ensayo de un crimen (Estasi di un delitto), uscito nel 1955, è il tipico rappresentante di quella borghesia alacremente bersagliata dal regista spagnolo in moltissime delle sue pellicole. Tullio Kezich, grande critico cinematografico, descrive difatti gli intenti di Buñuel in questo film come caratterizzati dalla volontà dell’autore di dipingere il ritratto di un rampollo dell'alta borghesia, coccolato, viziato, fermo all'infanzia e ai suoi capricciosi vizi nonostante abbia ormai raggiunto l'età matura. Alle nuances surreali si affiancano, in questa produzione, aperture al mondo della psicanalisi. Il protagonista brama la morte degli altri ma non la cagiona direttamente; è un criminale in potenza, ma non c'è pena che sanzioni le cattive intenzioni. Il perverso desiderio criminale è legato ad un oggetto, un feticcio, un carillon italiano, da cui il protagonista è, sin da piccolo, morbosamente attratto. Buñuel indaga la parte meno esposta dell'umana psiche con l'abilità di consumato psicologo e si scaglia violentemente contro i difetti della borghesia. Il regista spagnolo aveva di certo presente la critica marxiana del feticismo delle merci. La divinizzazione di un manufatto denota il distacco del borghese dalle vive dinamiche del lavoro. La scena conclusiva segnerà la rinascita del protagonista, il quale si disferà del suo bastone, simbolo della sua schiavitù. Buñuel è regista estremamente attento alla simbologia e, nel corso degli anni, sviluppa questa sua tendenza soprattutto in direzione religiosa. È necessario che l'uomo cammini sulle sue gambe e rigetti qualsiasi genere di ausilio, spesso simbolicamente rappresentato. Tra i personaggi buñueliani non compaiono eroi positivi, bensì maschere che falliscono miseramente. La miseria diventa principale elemento ontologico del mondo e la salvezza si configura come irraggiungibile come mostra il brillante Nazarin (1958). Neanche il cristianesimo può contribuire alla formazione di una nuova Weltanschaaung in vista dell'emancipazione dalla disperazione prima spirituale e poi materiale. Il protagonista del film, padre Nazario, è un sacerdote, della cui estrema bontà tutti abuseranno, fino a portarlo alla sospensione a divinis dal suo esercizio sacerdotale. A quel punto, padre Nazario si trasformerà in predicatore itinerante e si vedrà attribuire capacità taumaturgiche. La sua cocciuta coerenza nel diffondere la lezione evangelica si rivelerà sterile. Buñuel costruisce un presunto eroe positivo che pare ripercorre le tappe della predicazione e della Passione di Cristo. Al centro del film sta il tema etico. Qual è l'approccio del regista spagnolo alla morale? Buñuel non intende descrivere un'assiologia del bene e del male né stabilire criteri morali generali e indiscutibili. Perché al bene si risponde con il male, perchè la pratica disinteressata del bene, perchè la pratica sadica del male? Tutti interrogativi, questi, destinati a ricevere risposte frammentarie e pienamente ricollegabili al problema filosofico-teologico della teodicea: Si deus est bonum, unde malum? Chiedersi le ragioni della presenza del male nel mondo non è illegittimo, ma pensare che vi sia un principio autonomo del male è puro manicheismo. Il discorso cinematografico di Buñuel è radicalmente anti-metafisico e non si propone di congetturare in merito ai massimi sistemi ma di evidenziare i cancri che dilaniano il singolo e le istituzioni medesime. In Nazarin ritroviamo il proselitismo, l'isterismo religioso, il fanatismo, l'anticlericalismo. Di grande impatto è la scena in cui diverse donne sono preda di un’isteria religiosa, urlano benedizioni, intonano preghiere, cercando di propiziare la guarigione di una bambina.
Ma è in Viridiana (1961) che la critica della Chiesa e la parodia della religione assumono dimensioni eccelse. L'andamento della pellicola è sconvolgente, i personaggi sono descritti con nettezza e le simbologie curate nei minimi particolari. Il film si configura nei termini di una riconversione dalla spiritualità alla mondanità. La giovane Viridiana, da serva di Dio, si scioglie i capelli e si ritrova a giocare a carte, a scendere a patti col mondo. Da suora, a seguito del suicidio del morboso zio, si reinventa tutrice di diseredati, ma i vagabondi ingrati stanno per disonorarla. La gratuità del male non è percepita da Viridiana, la quale si fida ciecamente degli infelici che sta aiutando. Buñuel non risparmia neanche i ceti più bassi della società, evidenziandone la radicale deficienza di umiltà e gratitudine. Celebre è la scena della parodia dell'Ultima Cena, pietra dello scandalo per le gerarchie ecclesiastiche. La cena di Viridiana non celebra una sacra alleanza, ma una dissacrante disunione; gli stessi poveri non riescono a rimanere coesi e tra loro si ingenerano conflitti. La lezione hobbesiana dell'homo homini lupus, più che mai attuale, viene estesa dallo stato di natura allo stato di civiltà. O meglio, riconduce la civiltà stessa ad uno stato di natura annullando le umane illusioni in merito alle differenze tra le due condizioni.
Usando
le parole dello stesso Buñuel, contenute all'inizio di un altro
suo capolavoro, ovvero El angel exterminador (L'angelo sterminatore),
uscito nel 1962, diremmo: «fragile impasto di sordidi vizi, colpevoli
debolezze, splendide virtù, l'uomo reca in sé la propria
condanna e la propria salvezza. La sua stessa anima è la gabbia
che lo terrà prigioniero fin quando l’angelo sterminatore
verrà a separare l'innocenza dal peccato, l'umiltà dalla
superbia, l'odio dall'amore...». Il tema dominante di questa pellicola
è il conformismo. Non riuscire a lasciare una casa, a seguito di
una cena su invito, è paradossale e quanto mai inusuale. È
un gregge quello descritto dal regista spagnolo, dove ad emergere è
la miseria dell'intero genere umano. RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI Giuseppe
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