Nicola
Spagnuolo
David
Lynch: The air is on fire
Dallo scorso
9 ottobre al 13 gennaio 2008, alla Triennale di Milano, è stata
di scena la vastissima esposizione del materiale pittorico-palstico-filmico
di David Lynch. La mostra aveva preso forma precedentemente presso la
Foundation Cartier di Parigi con il manifesto intento di costituire
il più completo assemblaggio dell’opera extracinematografica
del regista americano.
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The
air is on fire ha riflesso molto del suo artefice nella disposizione
(dunque fruizione) prima ancora che nelle singole opere, ovvero quella
sorta di gioco a scatole cinesi cerebrali che governa gran parte dei suoi
film e in modo particolare l’ultimo allucinante Inland empire.
In modo analogo le prime sale presentavano le tele più grandi,
ma poco dopo al centro compariva un cinema in miniatura costruito ad immagine
e somiglianza del teatrino degli spermatozoi spiaccicati di Eraserhead,
circondato da centinaia di schizzi a carboncino e foto-ritocchi appesi
lungo le pareti.
In mezzo alla sala proseguivano le tele grandi , verso la fine vi subentravano
riproduzioni di interni e colorate sculture complete di un bottone rosso
che se premuto innescava una colonna sonora industriale-rumoristica.
Il metodo di rappresentazione di Lynch è da sempre quello della
dissezione: dai tempi in cui giovane scavezzacollo praticava autopsie
ai gatti nella sua cantina per scoprirne lo strato celato dall’epidermide
poco (eppure tantissimo) è cambiato. La dissezione è diventata
narrativa nel cinema, dove il più apparentemente banale dei plot
viene eroso e via via rivela lo strato sottostante. Nelle tele il confine
tra metafora e dissezione vera e propria è labile: i dipinti sono
arricchiti con materiali vari spesso e volentieri bruciati o comunque
usurati. Wajunga red dog ad esempio offre una creatura antropomorfa
seminuda dalla pelle crespa, sta sull’uscio di un edificio nero
e osserva il cane rosso, ovvero poche pennellate rosse zampettanti nell’angolo
opposto del quadro. In altre opere Lynch usa teste di bambole carbonizzate
per completare alte e ossute figure a passeggio in un bosco al calar del
sole; e in più di un’occasione un tale Bob è indicato
nei titoli delle tele, spesso va a fuoco e a conti fatti in Twin Peaks
se la passava meglio.
This man was shot 0,9502 seconds ago raffigura uno yuppie (giacca
e pantaloni con tanto di telefonino in tasca reali lo suggeriscono) a
braccia spalancate per il dolore del proiettile che lo ha colpito e gli
ha fatto esplodere il torace. Dal foro di entrata schizzano frattaglie
di materiale vario sovrapposte all’acquerello, il senso del movimento
è reso alla perfezione. Si tratta di un dipinto importante perché
sono presenti le principali influenze del Lynch pittore: l’ossessione
per Kokoschka, il debito con Bacon e qualcosa delle tinte pastello di
Hopper.
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Proseguendo
comparivano i foto-ritocchi alle pareti alternati a tovagliolini da caffetteria,
fogli promozionali di agenzie di ogni tipo su cui il regista ha ininterrottamente
disegnato per anni. Su queste micro-tele improvvisate è riversato
un universo di forme naive tanto semplici quanto inquietanti; vi ricorrono
enigmaticamente dirigibili, case in fiamme (come quella che compare alle
spalle del vecchio Alvin in un momento di Una storia vera) e
le teste di coniglio scuoiato che si manifestarono nelle sembianze del
figlio-feto di Eraserhead. L’immaginario di Lynch può
dunque manifestarsi sotto forme e metodi di rappresentazione differenti,
ma queste non vanno a costituire compartimenti stagni e sono bensì
tasselli di un caleidoscopico mosaico. Come quindi le fotografie ritoccate
e non: ci si imbatte in eleganti ritratti virati in seppia di tronchi
umani con arti ridotti a moncherini, corpi tanto deformi quanto languidi
fieri di mostrare o un fallo eretto o una vagina. Figure di donne che
tanto ricordano le foto di scena di dive del cinema muto quali Lilian
Gish o Mary Pickford e che paiono altrettanto orgogliose di mostrare orride
malformazioni. L’inquietudine si respira anche nei ritratti paesaggistici,
in cui inspiegabilmente si rimane interdetti di fronte a semplici pupazzi
di neve o rubinetti che perdono in un lavandino lurido. Inutile e pretestuoso
cercare significati reconditi, pena la laconica e un po’ seccata
risposta dell’autore: «Li ho fotografati perché mi
piacciono». Altra passione manifesta di David Lynch è l’art
deco anni ’30 e in particolare le finezze liberty di Morris. A testimonianza
di ciò diversi disegni di interni decorati e la riproduzione a
grandezza naturale di uno di essi, installato al limitare dell’esposizione:
un salotto con poltrone dalle tonalità vivaci e un che di tropicale,
solo ad un esame superficiale in contrasto con resto dell’opus lynchiano.
Basti ricordare la minuzia con cui vengono resi gli ambienti domestici
in Velluto blu, Cuore selvaggio, Strade perdute
e Mulholland Drive.
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Nucleo
centripeto e centrifugo dell’esposizione è stato indubbiamente
il cine-teatro da una trentina di posti impegnato nella proiezione non
stop di gran parte dei cortometraggi realizzati tra i primi anni ’70
ed ora.
Il primo gruppo comprendeva Six figures getting six, The
alphabet, The grandmother e The amputee che, prevalentemente
basati su differenti processi di animazione e lavoro diretto sulla pellicola,
sono un campionario di allucinazioni contorte in perenne decomposizione.
Six figures getting six pare un dipinto di Bacon che abbia preso
vita e The grandmother è l’allucinante storia d’amore
forse incestuoso tra un bambino maltrattato e la nonna che egli stesso
ha fatto germogliare da un mucchietto di terriccio. Già dalla visione
dei primi corti ci si accorge dove gli schizzi e i dipinti appesi sulle
pareti siano confluiti: arti recisi, teste umanoidi e liquidi organici
a scorrimento libero acquistano drammaticità ulteriore nelle mani
di chi il cinema lo intende come arte del movimento e non come scatola
narrativa.
Il secondo gruppo era costituito dalla recente serie ad animazione Dumbland,
ossia una serie di brevi sketch con protagonista un nucleo familiare brutale
e grottesco. I personaggi paiono un assemblaggio degli schizzi sui tovaglioli
da tavola calda, il tratto infantile e naive è appositamente contraddetto
dall’ossessività e dall’estrema violenza delle situazioni
narrative.
Terzo e ultimo raggruppamento infine costituito dalle creazioni più
recenti più Industrial symphony no. 1, sorta di performance
teatrale-musicale: uno strumento a percussione composto da macchinari
abbandonati a moto perpetuo sotto un temporale elettrico scandiscono un
tempo ipnotico. Gli altri cortometraggi sono posteriori alla conversione
al digitale di Lynch, presentano più di un’analogia con
Inland empire pur mantenendosi meno ossessivi. Tra questi i più
interessanti sono un breve divertissement intitolato Neighbors e soprattutto
due vedute fisse di un bosco: non accade nulla se non il gentile sopraggiungere
della sera che fa perdere man mano i contorni.
Geniale intuizione infine è stata proprio la collocazione al centro
della mostra del micro-cinema: per tutta l’esposizione non avrebbe
potuto esserci colonna sonora migliore dell’audio ad alto volume
dei film.
Nicola
Spagnuolo - mangogroove@hotmail.it
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