Marco Tabacchini

«Tutto quel che è deve essere consumato»
(Avvicinamenti I,2)


Il conformismo assoluto delle pratiche sociali esistenti,
con le quali si trovano per sempre identificate
tutte le possibilità umane, non ha altro limite esterno
che quello della paura di ricadere nell'animalità senza forma.
Qui, per restare nell'umano, gli uomini devono rimanere se stessi.

Guy Debord

Particolare delle pitture parietali nella grotta di Lascaux.

È certo merito di Georges Bataille l'aver attribuito alla grotta di Lascaux l'incontestabile posto d'onore che le spetta - a fianco dell'altra famosa grotta, quella platonica – quale pietra miliare della gloriosa storia-museo dell'Umanesimo, perpetuo discorso istituito dall'uomo su se stesso in funzione del proprio riconoscimento e della propria contemplazione. Riconoscimento della sua inesauribile diversità, della differenza intessuta nel suo esserci, ma anche contemplazione assorta di questa differenza, presto tradotta in immagine, in idea, originatasi da un radicale processo di divisione. Non è certo un caso che a Lascaux, luogo di «fioritura miracolosa dell'essere umano»[1], la comparsa dell'arte abbia testimoniato in primo luogo della prima divisione tra l'uomo e l'animale, nel momento in cui l'uomo si riconobbe nello scarto che lo separava dall'animale raffigurato. Si riconobbe e, in questo modo, consegnò l'animale al bando, non sapendo che avrebbe condiviso uno stesso destino... Si riconobbe, quindi, afferrò la propria esistenza nell'immagine che essa offriva, e la oppose alle immagini animali che iniziavano prepotentemente ad infestare il suo desiderio:

«Questi uomini hanno reso sensibile per noi il fatto di essere divenuti tali perché non più limitati dall'animalità, ma l'hanno reso sensibile lasciandoci l'immagine stessa dell'animalità da cui evadevano. Ciò che gli affreschi mirabili annunciano con una forza giovanile non è soltanto il fatto che l'uomo che li ha dipinti smise di essere animale dipingendoli, ma che smise di esserlo dando dell'animale, e non di se stesso, un'immagine poetica, che ci seduce e ci appare sovrana»[2].

G. Bataille nelle grotte di Lascaux.

Bisogna però leggere questo passaggio senza abbandonarsi alla seduzione, senza cedere a quel sentimento di meraviglia suscitato da una certa modestia (?) dell'uomo verso l'animale. Quella dell'uomo non fu soltanto la manifestazione di una semplice fascinazione. Come se già nella volontà di evasione dall'animalità, nell'esaltazione connessa a questo nuovo movimento si annidasse il germe della futura sottomissione[3]. Dopotutto, la poeticità dell'animale, la sua trasfigurazione, non fu forse funzionale alla nascente narrazione dell'uomo? Fu l'intera storia del legame tra uomo ed animale ad essere giocato attorno all'immagine poetica dell'animalità. L'uomo smise di incontrare gli animali, si ridusse ad immaginarli, a cancellarli come singolarità e riconoscerli solamente all'interno del regime di visibilità del loro prestigio, della loro ricchezza. Il prestigio dell'animalità, l'«uomo ornato dal prestigio della bestia»[4], prima ancora che ornato dalla sua pelle, nascosto sotto la maschera dell'animale. Intento a raffigurare e catturare non il suo essere nascente, ma lo spettacolo di vita animale che solo queste immagini sembravano definitivamente arrestare e offrire docilmente allo sguardo. Bataille ricorda infatti che «gli animali rappresentati nelle caverne o sugli oggetti decorati non sono tutti gli animali, ma quelli che suscitano il desiderio dell'uomo»[5], come se solo questi fossero adatti a supportare quell'ambigua dignità che l'uomo attribuiva loro. Non si tratta tanto del problema del valore magico di queste immagini, di un loro possibile utilizzo come pratiche rituali, quanto del primo irreparabile scollamento tra l'uomo e una certa nudità animale. L'uomo evase dall'animalità nel momento in cui si sforzò di evitare il contatto con la nudità comune, nel momento in cui la ricoprì di tutte quelle qualifiche che il desiderio suggeriva. «Queste figure affascinanti sono belle proprio perché i loro autori amavano quelli che raffiguravano. Li amavano e li desideravano. Li amavano e li uccidevano»[6]. Ciò che l'uomo amava non era però identificabile con i singoli animali, cacciati uccisi e mangiati, ma solo quell'immagine di animalità rigogliosa e inafferrabile che scorreva davanti ai suoi occhi imperitura. Fu questo l'atto fondatore di quella divisione tra zoé puramente uccidibile ma insacrificabile e bìos qualificato, ma disincarnato, trascendente. E fu ancora questo il principio di quella sacertà della vita che ancora permette la sua soppressione indiscriminata[7].

Particolare delle pitture parietali
nella grotta di Lascaux.

È interessante notare come Bataille in qualche modo disconosca la presenza di questo movimento di cancellazione animale, attribuendolo solamente alla particolare condizione dell'uomo moderno. Come se a proposito di Lascaux non si potesse ancora parlare di questa cancellazione. Per Bataille, solo con la modernità l'uomo ha reciso completamente ogni legame con la propria animalità, con quell'animalità che nell'antichità lo circondava e in qualche modo lo stringeva a sé:

«Lo sguardo dell'uomo moderno sugli animali, lo sguardo generale, estrinseco alle relazioni individuali, con cui li vediamo, è uno sguardo assente, è lo sguardo con cui vediamo le cose utili e qualunque. In generale, ai nostri occhi l'animale non esiste; ed è per questo che non muore. O, se si vuole, noi ci accordiamo per eludere la morte, per sottrarla a tutti gli occhi, in breve, per costruire un mondo in cui l'agonia e la morte dell'animale siano come se non ci fossero»[8].

Ma ci è permesso forse dire che l'uomo di Lascaux possedeva un altro sguardo per l'animale? Esisteva davvero l'animale, o meglio, un animale, un singolo animale? O, piuttosto, a fronte dell'animalità sentita come prossima e desiderabile, già lo sguardo umano lavorava per questa esclusione, introducendo gli animali, ormai presi come materia duttile ed arrendevole, all'interno dei propri meccanismi? A nulla vale opporre l'idea di un certo sentimento di ricchezza animale; esso si è sempre legato all'altra idea, meno poetica, dell'animale come risorsa, come oggetto preso nella sua utilizzabilità.

Dopotutto, questo sentimento di ricchezza non ha mai impedito all'uomo di incidere il suo segno sulla pelle dell'animale. Forse l'uomo non ha fatto altro che incidere sulla pelle, beffardamente, proprio il segno, il marchio di quella ricchezza. Pelle così instancabilmente scritta, ricoperta, adornata, mostrata in una esposizione gloriosa che mima maldestramente l'esposizione costitutiva della pelle, la sua expeausition. E, soprattutto, che la occulta. Bataille ha ragione a considerare lo sguardo umano come assente; esso si è sottratto a quella prossimità che l'animale reca con sé, l'ha trascesa, ne ha fatto un'immagine presentabile, riproducibile e al contempo desiderabile. Lo sguardo umano ha così attraversato i corpi degli animali, ma in questo apparente lasciar-essere, si è fondata la possibilità di una violenza inaudita nei confronti degli stessi. Annientando la nuda vita animale, l'uomo ha così potuto rivolgere il proprio sguardo verso la bellezza, e la sacralità dell'idea di animalità in quanto tale. In questo risiede la supposta poeticità animale dell'uomo di Lascaux: nell'ammirare la ricchezza animale, nel sentirsi amico, se non suddito, nei confronti di essa, e tuttavia nell'uccidere l'animale suo prossimo, nel negare qualunque poeticità alla sua carne lacerata o divorata[9]. È totalmente illusorio, dunque, opporre a questa apatia dello sguardo un qualche riguardo verso la più presentabile delle immagini animali:

«È l'animalità poetica delle caverne. Certo, essa sussiste per noi, ma ce ne siamo separati. L'umanità ne è venuta fuori, fondando la sua superiorità sull'oblio di quell'animalità poetica e sul disprezzo della bestia – priva della poesia dell'essere selvaggio, ridotta al livello delle cose, asservita, abbattuta, smerciata»[10].

Due Menadi con animale sacrificale.
Pisside dell'Archäologische Institut di Heidelberg.

Questo concetto di animalità poetica non ha mai opposto alcuna resistenza nei confronti dell'interminabile processo di uccisione animale, né verso una qualche singola opera di uccisione. Al contrario, esso li ha in qualche modo garantite e rese lecite, nell'indistinta accidentalità delle singolarità viventi. Non serve certo il disprezzo per formare oggetti inerti, abbassati al rango di cose. Anche l'attrazione, a volte, può condurre alle medesime conseguenze.

E, dopotutto, non si può nemmeno considerare il mito dell'animalità poetica come dissolto definitivamente nella modernità. Mai come ora, infatti, l'idea di animale si è adagiata pacificamente all'interno dello spettacolo, in una moltiplicazione cancerosa delle mostranze, in una riproduzione indiscriminata, se non di poeticità, di una certa idea di tenerezza animale, a fronte della più massiva delle sparizioni animali, dell'immunizzazione quasi totale da ogni effettiva presenza animale[11]. Ecco l'animale, così consegnato alla custodia della rappresentazione, nel tentativo di escluderlo compiutamente dal mondo formato dall'uomo per l'uomo. Il prestigio dell'animale, una trappola votata alla divisione dell'animale da se stesso, e dell'uomo dall'animale. Una mostrazione funzionale soltanto alla cattura dell'animale, e alla sua esclusione nella categoria ermetica, distante e distinta di sacro:

«Il sacro immanente è dato a partire dall'intimità animale dell'uomo e del mondo, mentre il mondo profano è dato nella trascendenza dell'oggetto, che non ha intimità a cui l'umanità sia immanente»[12].

Ciò nonostante, a riprova della fondamentale ambiguità di un concetto così sfuggente come quello di sacro, questa presunta immanenza del sacro, e dunque dell'animale, non ha impedito all'uomo di escluderlo nella più radicale delle trascendenze, di estirparlo dal mondo in cui si muoveva, mondo ridotto sempre più a misura dell'umano.

Prima ancora che venisse disegnato, prima ancora che venisse esposto, l'animale è stato sacralizzato, strappato alla sua immanenza e relegato in ciò che è più che separato. Ma in questo processo, solo la sua immagine è sopravvissuta, rinvigorita da questa nuova dignità conquistata nel sacrificio, mentre la sua carne è stata necessariamente uccisa nell'esclusione dal comune movimento del vivente. Escludere l'animale dalla comunità dell'uomo, sacrificarlo, significa più propriamente escluderlo dalla sua stessa vita, ucciderlo. Non si dà vita che non sia costitutivamente in prossimità, e la soppressione di quest'ultima non è altro che opera di morte. Questa è la vera ambiguità del sacro, più originaria di quella che articola sacro destro e sacro sinistro.

Attento lettore di Bataille, Agamben imputa proprio alla dialettica tra sacro destro e sinistro, tra sacro di rispetto e trasgressione, l'«aver compromesso le ricerche di Bataille sulla sovranità»[13], come se questo fraintendimento di fondo dell'essenza del sacro non potesse rendere conto dell'intero dispositivo che ad essa è sotteso. Per questo motivo, il concetto di sacro verrà qui utilizzato per indicare il distinto, e il distante. In primo luogo, il sacro è il distinto, questo ci indicano le pitture di Lascaux. La rappresentazione dell'animale che lì si è compiuta non ha fatto altro che relegare l'animale nella zona del sacro, cancellandone così l'intimo aspetto comune, nascondendolo sotto la potenza del prestigio, tracciando nella sua carne la divisione tra una sacralità alta e una carnalità immonda, o tutt'al più funzionale in quanto cosa, più-che-profana. Da qui la facilità con cui di volta in volta è stato investito con i caratteri del demoniaco, dell'infero e del divino: «un divino il cui carattere infinito si esprimeva nella forma animale, opposta all'aspetto pratico e limitato che è proprio dell'uomo»[14]. Fu questa l'estrema risorsa dell'uomo, la sua finzione più efficace: non potendo sopportare la prossimità animale che in qualche modo lo riguardava, decise di confinarla laddove un rigido sistema di rigide cesure e regole avrebbe definito i tempi e i luoghi di ogni avvicinamento. Non vi è infatti distinzione senza un distanziamento, un annullamento di prossimità. «Sacro significa separato, messo a distanza, appartato, ritirato»[15], poiché è nel rapporto tra sacro e profano che si è data una prima divisione, una prima economia dei rapporti tra uomo ed animale. Come se l'uomo avesse dovuto, per necessità, separarsi dall'animale da cui proveniva nel modo più radicale possibile, relegandolo nell'inconoscibile per eccellenza, mantenendo comunque aperta la possibilità di un sapere che ne permettesse lo sfruttamento. Solo in questa forma di contenimento, di comprensione, l'uomo è riuscito ad arrestare e riprenderne la fuga nel non-sapere, e nello stesso momento ad evitare ogni contatto, ogni incontro improvviso. Come scrive René Girard, «bisogna tenersi il più lontano possibile dalle forze del sacro, bisogna evitare tutti i contatti»[16] e di conseguenza istituire una serie di norme che permettano così gli scambi e la gestione della distanza. Nessun incontro possibile tra l'uomo profano e l'animale cacciato nel sacro (dove il cacciare si carica di entrambi i suoi significati, indecidibile tra il relegare e il catturare, l'includere e l'escludere). Lì, in quella sfera ormai onnicomprensiva, si danno soltanto sapienti avvicinamenti, amministrati e dosati con cautela.

Rituale vaudou

L'animale è stato così incessantemente diviso e dislocato nella sfera separata del sacro, e tuttavia ciò non ha impedito una sua paradossale utilizzazione, o meglio, un suo sostanziale consumo. Si potrebbero pensare utilizzo e consumo come le due direzioni di uno stesso movimento. Un utilizzo del concetto di animalità, e dell'animale in generale, a fronte di un consumo di ogni singolarità animale. Essa è ogni volta consumata nella caccia, o per la mensa bandita di una festa, o sotto il coltello per un sacrificio. Ma a fronte di questo consumo, aleggia pur sempre l'ombra di un'utilizzabilità spettrale dell'animale che nulla ha a che vedere con la finitezza della carne, se non il fatto di averla a sé come mero supporto. Niente è più adatto a questa forma di sacralità animale della frase che Caillois pone in conclusione a L'homme et le sacré: «la verità permanente del sacro risiede simultaneamente nel fascino del braciere e nell'orrore della putrefazione»[17].

Eppure, paradossalmente, il complesso rapporto tra l'uomo e l'animale non si è limitato a questo bando dell'animale. Esso è stato vittima di un doppio movimento che lo ha relegato in qualcosa come un non-luogo, né sacro né profano, o se si preferisce, infinitamente in squilibrio tra i due, da dove non avrebbe più potuto intralciare il dispositivo della macchina antropologica[18]. In questo luogo, più separato del sacro, più basso del profano, l'uomo ha potuto così «tratta[re] l'animale come un campo di possibilità a lui subordinate»[19]. Possibilità del consumo nel rito e nel mito da una parte, possibilità del consumo come cosa sottomessa ad un fine dall'altra. Questa relazione paradossale non deve comunque destare stupore. Essa è già inscritta come cifra segreta di tutto ciò che è definito sacro, nello stesso momento in cui sfugge alla coscienza dell'uomo. Bataille scrive: «Ciò che è sacro è inafferrabile. Per afferrarlo, lo metto al servizio di questo da me determinato, facendone una cosa»[20]. È in questo modo che l'assoluta divisione dell'animale si accompagna ad un suo assoluto consumo, la più alta sacralizzazione alla più radicale sottomissione. Solo con l'escludere l'animale nel sacro, con l'anestetizzare ogni prossimità, l'uomo ha potuto consentire al suo utilizzo, alla sua riduzione a cosa[21]. Finzione paradossale, dunque, e tuttavia essenziale, se ha permesso all'uomo di costituirsi come tale, in un'irriducibile differenza ontologica:

«La definizione dell'animale come una cosa è diventata umanamente un dato fondamentale. L'animale ha perduto la sua dignità di simile all'uomo, e l'uomo, scorgendo in se stesso l'animalità, la considera come una tara»[22].

Dato fondamentale e fondatore della differenza umana, in grado di giustificare ogni forma di gerarchia tra gli esseri, tra l'uomo e l'animale, così come tra uomo ed uomo, fino alla radicale divisione in seno alla stessa esistenza umana tra spirito e carne, in cui l'uomo è ormai soltanto l'aura di individualità che si scosta con ribrezzo da quello che considera il suo supporto carnale. Poco conta che questa divisione si alimenti di una finzione. Essa è a tal punto effettiva da occultare l'infondatezza del suo stesso essere, spingendosi fino a negare fisicamente la stessa presenza animale:

«C'è senza dubbio una parte di menzogna nel considerare l'animale come una cosa. Un animale esiste per se stesso e per essere una cosa deve essere morto o addomesticato [...]. Ma uccidere l'animale e trasformarlo a proprio piacimento non significa solo trasformare in cosa quel che senza dubbio in precedenza non lo era, significa definire sin dal principio l'animale vivente come una cosa. Uccidendolo, facendo a pezzi, cucinando, affermo implicitamente che quello non è mai stato altro che una cosa»[23].

Terminata una prima finzione che permetteva la gestione della chair in favore della sua sacralità, ora resta soltanto la mitigata realtà della viande a testimoniare della definitiva scomparsa dell'animale. Solo attraverso la produzione di una carne disincarnata, solo grazie a questa finzione, l'uomo ha in qualche modo potuto avvicinarsi all'animale, instaurare su di esso il proprio dominio, il proprio sapere: «l'animale è stato compreso una prima volta da un uomo che lo uccideva e lo mangiava»[25]. Da qual momento non si è trattato d'altro che della sua incessante ripetizione...

 

NOTE
[1] G. Bataille, Lascaux. La nascita dell'arte, Milano, Mimesis, 2007, p. 17.
[2] G. Bataille, Il passaggio dall'animale all'uomo e la nascita dell'arte, in Id., L'aldilà del serio e altri saggi, a cura di Felice Ciro Papparo, Napoli, Guida, 1998, p. 362.
[3] Cfr. G. Bataille, Il passaggio dall'animale all'uomo e la nascita dell'arte, op. cit., p. 375: «Non vi è motivo per pensare che l'uomo non abbia dal principio avvertito, in una certa misura almeno, il sentimento di superiorità e di fierezza che ai nostri giorni lo contraddistingue».
[4] G. Bataille, Lascaux. La nascita dell'arte, op. cit., p. 68.
[5] G. Bataille, Il passaggio dall'animale all'uomo e la nascita dell'arte, op. cit., p. 371.
[6] Ivi, 372.
[7] Agamben ha dedicato a tale questione gran parte dei suoi ultimi lavori. Si veda in particolare G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 2005, e Id., Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
[8] Ivi, p. 372. In proposito si veda anche G. Bataille, Mattatoio, in Id., Documents, Bari, Dedalo, 1974, p. 173-174.
[9] È all'interno di questo movimento che si situano i rituali dell'orso riportati da Bataille come esempio dell'ambigua amicizia del cacciatore con la sua preda. Ad esempio, in G. Bataille, La religione preistorica, in Id., Sulla religione. Tre conferenze e altri scritti, Napoli, Cronopio, 2007, p. 152: «l'orso (catturato) a caccia è oggetto di tutto un cerimoniale. Quando i cacciatori sono riusciti a imporsi, gli chiedono di scusarli perché devono abbatterlo; e ovviamente si scusano ancor più dopo averlo fatto [...]. Una donna si mette sul capo la sua testa e si ammanta della sua pelle, poi danza travestita così, esortandolo a non essere né triste né arrabbiato. La testa e la pelle sono in seguito messe in un posto d'onore; e l'orso è invitato alla festa in cui ci si ciba delle sue carni». È forse in questo rituale, antico predecessore dei due corpi del re di Kantorowicz, che si situa la più definitiva cesura tra la carne uccisa e l'immagine salvata dell'animale.
[10] G. Bataille, Il passaggio dall'animale all'uomo e la nascita dell'arte, op. cit., p. 373.
[11] Cfr. J. Berger, Sul guardare, Milano, Mondadori, 2003.
[12] G. Bataille, Teoria della religione, Milano, SE, 2002, p. 68.
[13] Agamben G., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, op. cit., 83. Cfr. anche ivi, 124-127.
[14] G. Bataille, Lascaux. La nascita dell'arte, op. cit., p. 74. Cfr. ibidem: «il divino che è prima di tutto animale: le divinità egizie o greche partecipavano innanzitutto dell'animalità».
[15] J.-L. Nancy, L'immagine, il distinto, in Id., Tre saggi sull'immagine, Napoli, Cronopio, 2002, p. 31.
[16] R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 2005, p. 54.
[17] R. Caillois, L'uomo e il sacro, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 129.
[18] Sul concetto fondamentale di macchina antropologica, intesa come macchina di produzione incessante dell'umano, si rimanda a G. Agamben, L'aperto. L'uomo e l'animale, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.
[19] G. Bataille, Schema di una storia delle religioni, in Id., Sulla religione. Tre conferenze e altri scritti, op. cit., p. 60.
[20] G. Bataille, I problemi del surrealismo, in Id., Sulla religione. Tre conferenze e altri scritti, op. cit., p. 120.
[21] Vernant, in proposito, fa notare che, in Grecia, «la parola hiereion, che designa un animale come vittima sacrificale, lo qualifica al tempo stesso come bestia da macelleria, adatta al consumo» (J.-P. Vernant, Mito e religione in Grecia antica, Roma, Donzelli, 2003, p. 48).
[22] G. Bataille, Teoria della religione, op. cit., p. 37.
[23] Ibidem.
[24] G. Bataille, Il limite dell'utile, Milano, Adelphi, 2000, p. 196.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Agamben G., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 2005.
Agamben G., L'aperto. L'uomo e l'animale, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.
Agamben G., Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
Bataille G., Documents, Bari, Dedalo, 1974.
Bataille G., Il limite dell'utile, Milano, Adelphi, 2000.
Bataille G., L'aldilà del serio e altri saggi, a cura di Felice Ciro Papparo, Napoli, Guida, 1998.
Bataille G., Lascaux. La nascita dell'arte, Milano, Mimesis, 2007.
Bataille G., Oeuvres complètes, 12 t., Paris, Gallimard, 1970-1988.
Bataille G., Sulla religione. Tre conferenze e altri scritti, Napoli, Cronopio, 2007.
Bataille G., Teoria della religione, Milano, SE, 2002.
Berger J., Sul guardare, Milano, Mondadori, 2003.
Caillois R., L'uomo e il sacro, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
Girard R., La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 2005.
Nancy J.-L., Tre saggi sull'immagine, Napoli, Cronopio, 2002.
Vernant J.-P., Mito e religione in Grecia antica, Roma, Donzelli, 2003.

Marco Tabacchini - ekeskog@hotmail.it