Danilo
Mastropierro
Fernando
Pessoa e l'estetica dell'abdicazione
Prendimi
fra le braccia, notte eterna,
e chiamami tuo figlio.
Io sono un re
che volontariamente ha abbandonato
il proprio trono di sogni e di stanchezze.
La spada mia, pesante in braccia stanche,
l'ho confidata a mani più virili e calme;
lo scettro e la corona li ho lasciati
nell'anticamera, rotti in mille pezzi.
La mia cotta di ferro, così inutile,
e gli speroni, dal futile tinnire,
li ho abbandonati sul gelido scalone.
La regalità ho smesso, anima e corpo,
per ritornare a notte antica e calma,
come il paesaggio, quando il giorno muore.
F. Pessoa - Abdicazione
La tradizione
filosofica occidentale da Agostino in avanti, passando per Cartesio
fino allo spiritualismo di Bergson, pur attentata da Nietzsche, difficilmente
ha abbandonato in forme più o meno esplicitamente tematizzate,
un nucleo fondamentale: il soggettivismo.
Da intendersi essenzialmente come contrapposizione dualista di soggetto
e oggetto quale modalità imprescindibile e costitutiva del darsi
del reale. Poggia cioè, sulla separazione e la distinzione. Sulla
contrapposizione frontale, sia sul piano dell’idea che su quello
dell’esperienza.
Le filosofie dell’esistenza, d’altra parte, pur nella centralità
data alla coscienza quale istanza data e al tempo stesso fondante sia
del filosofare che dell’esistere, osservano, nel concetto husserliano
di intenzionalità, che la coscienza è sempre
coscienza di qualcosa. Insistono dunque sul fatto che la coscienza
che riflette sull’esistenza è già di per se pervasa
da qualcosa che coscienza non è, da esistenza di altro da sé.
Mi scopro così ineludibilmente in relazione; scopro quale carattere
essenziale dell’esistenza la coesistenza. La coesistenza
apre alla mobilità della relazione, tra la soggettività
e ciò che la trascende, ma la stesa soggettività, a sua
volta, è, come voleva Nietzsche, un rapportarsi reciproco degli
istinti. Vi è dunque, tornando a Cartesio, una sovrapposizione
di piani cartesiani pluridimensionali le cui coordinate sono ignote,
e il cui punto di intersezione è l’attimo dell’esperienza
nel quale si produce la relazione.
Il soggetto si dissolve nei punti prospettici individuati sulle assi
adiacenti e non cifrate dei vari piani. L’operazione sintetica
avverrà all’incrocio di tali punti, sapendo tuttavia che
essi sono mobili dentro e fuori se stessi, come mobile è la relazione
che li configura. La possibilità più concreta per impedire
alla mobilità prospettica di rifluire nell’evanescenza
è un compito che spetta all’artista realizzare, in una
modalità tale che faccia della creazione estetica il luogo privilegiato
dell’attimo che si trasforma in atto, il luogo di coagulazione
delle parvenze quale pratica alchemica di verità ottenute nel
laboratorio della finzione artistica.
È necessario che le esigenze del sentimento e i processi della
ragione s’incontrino nell’edificio liquidato della soggettività
e che, riunite assieme, osino rievocarla, sia pure come ectoplasma.
È proprio in quanto spirito defunto al di là del tempo
e dello spazio che infine quest’ultima si rivela interrogabile
su ciò che è. L’allestimento di un simile laboratorio,
ove la gravità del compito lo richieda, può imporre di
convertire l’intera dimora di chi vi opera a tale scopo, per quanto
angusta essa sia. Esige che il palazzo reale dell’io venga, per
così dire, sconsacrato da ogni investitura divina o mondana.
Esige l’abdicazione. L’intera opera e vita di Fernando Pessoa
possono dirsi l’adeguamento perpetuo a un siffatto compito.
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Antón
Castro, Fernando Pessoa. |
Poeta tanto
proteiforme quanto rigoroso nello scheletro filosofico su cui la carne
della sua letteratura cresce, la sua è una parabola unica eppure
emblematica della cultura occidentale. Dedito tanto alla minuzia del
giornale intimo quanto al rigore della speculazione metafisica, la sua
poliedricità va ben oltre l’eclettismo. L’insufficienza
di una sola forma creativa è in questo caso figlia non della
volontà plasmatrice di una signoria dell’equilibrio e dell’armonia
classicamente intese, bensì di un allargarsi drammatico della
forbice, mai così divaricata, tra l’esperienza della realtà
umana e il silenzio del mondo. Così come è figlia dalla
necessità di farsi carico e di elaborare in forma tragica, poiché
coinvolgente in modo radicale e ineludibile, il peso della storia e
del sapere; le cui istanze vengono al collasso in una modernità
al cui centro è, appunto, il soggetto. Soggetto che, nella duplice
alterità della natura e della storia, una volta vissute come
realtà qualificanti in senso positivo, sperimenta però
quello stato di assedio che, anziché costituirlo, lo minaccia
nelle proprie fondamenta.
Non
più rappresentare ed esprimere l’armonia, ma raccogliere
dalle sponde della dissonanza ciò che è annegato oltre
le acque territoriali del sapere civilmente spendibile e salvare ciò
che è naufragato su atolli inesplorati di inemendabili solitudini.
Il bacino del sapere basato sul cogito cartesiano è straripato,
e la sua piena ha reso fango quello che era il terreno vitale dell’uomo,
fango che scivola via dalle sue radici, mentre la storia travolge nel
suo incalzare le coscienze sradicate. È essenziale, a questo
punto, imparare a camminare sulle proprie radici divelte.
Si
tratta, ormai, di abdicare. In Pessoa l’abdicazione avviene innanzitutto
come abiura al dogma identitario. Più precisamente come rifiuto
dell’individualità quale istanza indivisibile, etimologicamente
e ontologicamente. Al contrario, essa sarà il terreno di coltura
di istanze prospettiche differenti, che si svilupperanno in forme capaci
di ascendere allo statuto di personalità poetiche, autonome nella
misura in cui l’autonomia sia colta non come autofondazione, bensì
come struttura interpretativa all’interno della quale si organizza
l’esperienza dell’accadere.
«Sono
il centro che esiste soltanto per una geometria dell’abisso; sono
il nulla intorno a cui questo movimento gira, come fine a se stesso, con
quel centro che esiste soltanto perché ogni cerchio deve possedere
un centro»[1].
Le
diverse personalità poetiche che Pessoa lascia sviluppare in sé,
ciascuna dotata oltre che di una propria cifra poetica, persino di una
biografia e di una fisionomia peculiari vengono a costituire dimensioni
sincroniche rispetto alla soggettività che si sfugge nella diacronia
dell’esserci nel tempo.
Gli eteronimi sono figure di sogno che «non conoscono il sogno del
quale sono figure»[2], un sogno il cui sognatore è a sua
volta sognato. Si tratta tuttavia di un sogno lucido, consapevole delle
proprie premesse, benché di queste stesse premesse non si conosca
che il loro ulteriore carattere onirico, e sulla cui natura è dato
osare, in rispondenza al sogno che le ha generate, l’indagine.
L’atto dell’abdicazione si precisa dunque come rifiuto della
pretesa lucidità che ignora se stessa come sogno. Lucidità
da intendersi quale investitura regale di sovrano-fantoccio a un essere
in sé e per sé che si staglierebbe nella sua assolutezza
in un’esistenza che è essenzialmente e ineludibilmente co-esistenza
di ogni cosa con l’altra, di modo che non si è se non in
quanto l’altro da sé è a sua volta.
Ma essa non è semplicemente rifiuto della condizione di sovrano-fantoccio.
Tale condizione è così definibile in base allo scarto clamoroso
tra l’estensione del regno e i poteri reali del monarca. È
proprio nell’avvertire tale iato che il poeta comprende, nell’inadeguatezza
al trono che occupa, l’aristocrazia della propria sensibilità.
L’abdicazione è un atto dimesso che emana da una condizione
di elevatezza, inadeguata tuttavia a ciò che la configura come
tale.
«Sono
rari dunque coloro che possono esigere e ottenere dalla vita che essa
si abbandoni loro corpo e anima; che sanno non essere gelosi della vita
perché sanno avere per lei un completo amore. Eppure questo deve
essere, senz’altro, il desiderio di ogni anima elevata e forte.
Però quando quell’anima constata che ogni realizzazione le
è impossibile, che le manca la forza di conquistare tutte le parti
del Tutto, le restano due strade da seguire. La prima è l’abdicazione
totale, l’astensione formale e completa, relegando alla sfera della
sensibilità ciò che non si può possedere pienamente
nella sfera dell’attività e dell’energia. È
mille volte preferibile non agire che agire inutilmente, frammentariamente,
insufficientemente, come succede alla superflua e vana maggioranza degli
altri uomini. L’altra è la strada del perfetto equilibrio,
la ricerca del limite nella Proporzione Assoluta, strada attraverso la
quale l’ansia di Estremo transita dalla volontà e dall’emozione
fino all’Intelligenza. E in questo caso l’ambizione non è
di vivere tutta la vita, e di sentire tutta la vita, ma di ordinare tutta
la vita e di realizzarla in Armonia e coordinazione intelligente»[3].
Due
concezioni del mondo si stagliano e si fronteggiano in questo passo, due
metodi spirituali, due precomprensioni emotive, due morali e due prassi.
Non c’è qui né il rifiuto categorico del mondo, caratteristico
dello gnostico, né quel pieno e totale sì alla vita del
pensiero nietzscheano. La vita diviene problema nella misura in cui la
sua ricchezza è colta ma non compresa, poiché è essa
che ci comprende. Certo, lo gnosticismo è presente, ma in forma
non professata. Perché professato non è il rifiuto morale
del mondo materiale. Semmai, nel rapporto che il poeta intrattiene con
esso, si rivela piuttosto la nullità dell’unità del
mondo materiale intesa come esigenza autodelegittimata di senso. O meglio,
in una prospettiva nietzscheana, nello scacco della costruzione di una
forma d’ordine capace di conferire unità a ciò che
si presenta molteplice e contraddittorio all’esperienza e del quale
la coscienza s’interroga nel non poterlo ricondurre all’unità
che pur fortemente esige.
L’abdicazione culmina nella rinuncia solo in quanto piena comprensione
di ciò cui si rinuncia, comprensione che sfugge all’azione
parziale, limitata, che considera un tutto il proprio dominio. Comprensione
non rivelata, comprensione che si solidifica in seno al mistero. L’abdicazione
non è neppure propriamente l’esilio. L’esilio si realizza
in forma sincronica, multipla e indefinita nel disperdersi delle parziali,
fittizie e impalpabilmente e inestricabilmente vincolanti dimensioni mondane
inautentiche. L’abdicazione è l’assunzione della condizione
esiliata mediante il riconoscimento del suo carattere plurimo e sfuggente
e, al tempo stesso, radicale e costitutivo.
L’unità che Pessoa non potrà mai essere, e di cui
i suoi eteronimi costituiscono l’espressione più diretta,
sarà ciò cui asintoticamente tenderà la sua intera
opera. Le dimensioni molteplici e contraddittorie della realtà
mondana saranno superate e sussunte dal dividersi in eteronimi, ciascuno
dei quali, e in ciò consiste il superamento della condizione decaduta,
si farà portatore di un’unificazione di senso all’insegna
di un unico stile, di una precisa cifra poetica, di una coerente e articolata
metafisica. E tutte, tenderanno alla totalità di una letteratura,
di un mondo nel mondo, specchio cieco del mondo oltre il mondo della Realtà
ultima, della Verità che sfugge e si allontana senza
possibile approdo. Forse verso Dio? Neppure. Egli «sa che è
uno, uno e infinito; / ma io so che Dio, nell’esserlo, non lo è.
Il mio essere proscritto giunge oltre Dio»[4].
La
seconda ipotesi, quella che si propone di «ordinare tutta la vita
e di realizzarla in Armonia e coordinazione intelligente», è
la strada dell’equilibrio, la via greca della misura come cifra
del sacro, della signoria nel finito, della triade pitagorica che chiude
la dualità lacerata che si proietta verso l’illimitato nella
infausta hybris, che risolve la scellerata diade pitagorica
che, non compiuta dal terzo, rimarrebbe aperta all’indeterminatezza.
È questo un atteggiamento esistenziale e un’estetica il cui
esperimento Pessoa delega all’eteronimo Ricardo Reis. Nell’equilibrio
e nella misura che informano le odi di quest’ultimo, troviamo non
un equilibrio e una misura che, come nella teoria nietzscheana del grande
stile (almeno secondo l’interpretazione di Heidegger), intendono
contenere il divenire senza placarlo, bensì, con epicurea austerità,
non opporvi resistenza. Nel tentativo, il più dolce possibile,
di tenere l’occhio aperto sull’incalzare del caos, dolcemente
ondeggianti in esso come anemoni nel mare in tempesta. Questo morbido
movimento ondulatorio del fluire e defluire della malinconia è,
con un contegno pre-moderno, dominato nella cesellata metrica dell’ode
oraziana, in cui il tema dell’abdicazione è immanente alla
dolente saggezza del tramonto.
«Non
tenere niente tra le mani / neanche un ricordo dell’anima, / ché
quando ti metteranno / in mano l’obolo estremo, / nell’aprirti
le mani / niente da esse cadrà»[5].
È,
tuttavia, una classicità della decadenza, depotenziata. Una classicità
di dottrine greche attecchite in suoli romani in cui ciò che informa
il pensiero è la sua attitudine a fornire rimedio e consolazione
al dolore. Preoccupazione questa che, come osserva Nietzsche, nel campo
delle arti come del pensiero, è sintomo stesso di decadenza.
Ma Pessoa è permeato di modernità e non può non farsi
carico dell’occidentale spirito faustiano che in essa si compie.
La razionalità applicata al divenire è lo spirito della
tecnica. La tensione continua al superamento, lo scarto incessante che
tende all’assoluto trovano esplicazione, applicati alla ragione
strumentale, nel macchinismo moderno.
Ed è su quel treno che, da clandestino, l’eteronimo Alvaro
de Campos, ingegnere navale disoccupato, dandy sprezzante e raffinato,
monta a percorrere, in lungo e in largo, la strada ferrata dell’immanenza.
E lo fa con stile furioso, martellante, contenuto in una metrica prossima
al collasso, sempre scongiurato, a servizio di esperimenti mimetici con
un reale cangiante e molteplice, nel quale, come nei sogni, ogni cosa
diventa altro; in un itinerario le cui stazioni vorrebbero essere tutti
gli esseri dell’esistente.
C’è qui una vocazione redentrice dall’oblio, non mediante
la poesia ma oltre la poesia, che assume su di sé l’impossibilità
del poeta di scegliersi in seno all’essenza molteplice e dilacerata
propria e del mondo.
«Tutti
gli amanti si sono baciati nella mia anima, / tutti i vagabondi mi hanno
dormito addosso un momento»[6].
De
Campos s’immerge nel multiforme con estasi sacrificale. Autosacrificale.
Il panteismo è qui un’ipotesi di lavoro seguita scrupolosamente,
con una sorta di ironia oscillante tra l’immedesimazione nel molteplice
e la consapevolezza del carattere effimero di quest’ultimo. L’ironia
qui non si applica agli oggetti d’esperienza, poco importa se concreta
o fantasticata, ma a colui cui l’esperienza fa capo, al soggetto
che vi attua la propria diaspora come ipotesi assurda della nostalgia
di una patria perduta e speranza scellerata e vaniloquente di una terra
promessa. E tanto meno si tratta di uno scafandro indossato per immergersi
in profondità irrespirabili, beneficiando tuttavia della trasparenza
dell’oblò per osservare, ben protetti, l’incalzare
di un’ostilità puramente potenziale. Si tratta invece della
facoltà che consente di osare quello che per altri sarebbe affrontabile
solo grazie al conforto della fede. È l’atto del santo meno
la fede che lo illumina e lo corona. È un’esperienza che
non facilita nulla a se stessa, esperienza non libera ma fatale. È
anche, nella stessa persona, la tortura dell’inquisitore (si vedano
alcuni passi masochistici dell’Ode trionfale), difensore
della fede nel reale perpetrata sullo scettico, basata sul duplice potere
ricattatorio e dimostrativo del dolore.
L’individuo, ancora legato all’incarnazione dell’esistenza,
avvolgendola stretta nelle maglie del corpo, allo stesso tempo punta in
direzione della perdita dei sensi tormentati e da qui alla con-fusione
nel tutto. L’esperienza panica del terrore e l’estasi panteista
appartengono a uno stesso flusso. In entrambi i casi il fluire conduce
al defluire, l’aggregarsi dell’accadere intorno all’esperienza
produce la massa critica che condurrà alla disgregazione.
Un simile panteismo è l’orgia del mistico prima dell’abbandono,
non strumentale ad esso, ma proprio per questo autenticamente rivelatore.
L’orgia al culmine della quale egli si apre alla mistica. La dissolutezza
di un Sant’Agostino prima della conversione. L’esperienza
delle cose sprofondata fino al nulla che le individua in seno all’essere.
È un panteismo che mette capo alla mistica nella misura in cui
l’annullamento del sensibile e del razionale, che nella via mistica
conduce all’assoluto, avviene in questo caso mediante l’immersione
in suddette dimensioni, nel farsi cosa sola con esse e, consumandovisi,
consumarne in sé e con sé il carattere reale.
Un panteismo che assume spoglie epocali di futurismo, quale consenso ironico
allo spirito della tecnica, per trapassarlo nella metafisica che ad esso
sottende, o meglio al vuoto metafisico che lo ospita contro le sue stesse
premesse, in una «cavalcata che scoppia a ogni parte contemporaneamente,
cavalcata oltre lo spazio, salto oltre il tempo»[7].
Si tratta di un futurismo che si appropria della fede nel progresso propria
di quello originario di Marinetti solo per consumare la dimensione temporale
che lo connota, una sorta di cavallo di troia penetrato al galoppo nel
nucleo metafisico della tecnica, facendo breccia nella dimensione mondana
della strumentalità come veicolo per l’estasi del molteplice
che si rivela vivificato da un’energia che «è la stessa
e tutta la natura è lo stesso»[8].
Nell’essere ciò con cui si con-fonde, il poeta compie il
sacrificio del sé: «è il depotenziamento e l’umiliazione
della soggettività ad aprire lo spazio teatrale di una rivelazione
che restituisce il primato alla trascendenza dell’essere»[9].
Il poeta sperimenta una simpatia con gli esseri la cui portata sarebbe
pari a quella del potere di un sovrano se non realizzasse però,
nel fondo, del potere soltanto la nudità.
«Sì,
poiché sono re assoluto nella mia simpatia, basta che essa esista
perché abbia ragione di essere»[10].
Egli
tenta, in ciò, di attuare lo stesso proposito di Rilke: farsi
cosa tra le cose. Ma solo per esperirne fino all’estenuazione
l’inattuabilità, trascendendosi nello scacco come coscienza
dello scacco stesso, e, nell’oblio di ciò che fu tentato
e perduto, come coscienza che nel dissolvere in sé i propri oggetti
e dalla cui alterità tuttavia dipende non può identificarsi
neppure con il proprio vuoto.
Ecco che l’afflato alla totalità si rivela esplicabile nella
sola dimensione onirica ma non in un mero abbandono decadente e oppiaceo,
bensì in una tragica immersione nell’infondatezza quale conditio
sine qua non del sogno che la letteratura è; ambiguamente
sospeso tra il riconoscimento e la donazione di forma e che si rivela
letteratura autentica nel superare la dicotomia tra dato e costruito.
Nel farsi cultura come «Physis nuova e migliorata»,
per dirla con Nietzsche. Ma per fare ciò, il poeta, deve scoprirsi
come tale e lo può fare solo in quanto desautorato come uomo nella
sua individuazione storico-situazionale.
La temporalità e la spazialità interiori verranno tese fino
al punto di rottura nel tentativo di farle aderire allo spazio-tempo socialmente
condiviso della terribile, perché imperfetta e non referenziata,
plausibilità del reale. Tale rottura prevista, programmata, ma
più catastrofe necessaria, come sforzo ultimo e suicida di una
volontà, condurrà al trascendimento nel nulla come alveo
di pura possibilità.
«Non
sono niente. / Non sarò mai niente. / Non posso voler essere niente.
/ A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo»[11].
L’estasi
del molteplice non tende soltanto ad allargarsi all’infinito, ma
anche ad addentrarsi nell’infinitesimale. In entrambi i casi il
limite invalicabile conduce a Dio, ma in maniera tale da andare in direzione
di Dio, nel senso di andare contro Dio stesso. Dio è trascendente
alla realtà generata, ma questa sua trascendenza non ne fa un assoluto,
in quanto lo lega alla realtà decaduta del mondo[12]. Più
esattamente, il mondo è la caduta di Dio[13]. Ma Egli è
anche «un grande intervallo / ma fra che cosa e che cosa?.. fra
ciò che dico e ciò che taccio». Ognuno di questi intervalli
possiede, come per il paradosso di Achille e la tartaruga formulato da
Zenone, la profondità infinita di infiniti intervalli a loro volta
infiniti. Tuttavia in essi c’è una verità che è
compito della pluralità letteraria sondare. La letteratura ha il
privilegio di sognare nel sonno terrestre che dormiamo:
«Quaggiù,
dove irreali erriamo, dormiamo ciò che siamo, e la Verità,
benché infine nei sogni la vediamo, la vediamo, perché in
sogno, in falsità»[14].
Ma
il sogno assume valore ontologico di creatore di realtà, nella
misura in cui tale sogno è la letteratura, giacché «tutta
la letteratura consiste in uno sforzo per rendere la vita reale»[15]
in un universo che non è che la caduta di un dio. Caduto è
il vertice garante dell’intero, caduta è la possibilità
di conferimento di senso all’essere da parte di un ente sommo che
quindi non si può più neppure considerare garante dell’unità
del soggetto.
Negli scritti esoterici, Pessoa sostiene il Dio degli uomini non essere
altro che l’uomo di un dio superiore e quest’ultimo, a sua
volta, uomo di un Dio ancora maggiore e così via, all’infinito.
Non c’è vertice se non all’interno di un universo,
ma ciascun universo non è uni-verso che rispetto a se
stesso, agli esseri di cui è costituito e rispetto al Dio che lo
regge. Rispetto alla realtà non è che uno dei molteplici,
forse infiniti pluri-versi. Non è la realtà tutta né
la realtà ultima. Nella lettera a Casais Monteiro, il nostro poeta,
interrogato sull’occulto, risponde alla vaga domanda dell’amico
affermando di credere all’esistenza di gerarchie di esseri spirituali
coi quali è possibile entrare in contatto, escludendo perciò
il contatto diretto con la divinità (del proprio universo, perlomeno)
e mettendo così seriamente in dubbio la possibilità stessa
di una mistica quale contatto diretto con l’ente sommo, esso stesso
provvisorio.
Ma
se anche Dio ebbe caduta e l’universo non è che la manifestazione
della caduta di un dio, l’assunzione del proprio posto in esso è
l’assenso ad un ordine che è tale solo in virtù della
rottura di un ordine superiore, il dominio limitato che si accetta come
dono di una realtà superiore non è che l’esca spalmata
di colla per la sovranità cui offre di regnare. Abdicare da questo
modesto regno, abdicare da questa sovranità senza poteri è
l’unica via per accedere alla vera regalità aristocratica.
«Abdicare
alla vita per non abdicare a se stessi»[16].
Il
poeta deve abdicare, anche per una superiore istanza di ordine
religioso. Perché, anche ammettendo che la regalità gli
sia conferita da Dio, egli sa che si tratta di un Dio limitato, limitato
in senso gnostico in ragione della stessa creazione, in basso e in alto,
dall’essere la sua realtà divina una realtà di caduta
pari a quella umana. Dunque i limiti della condizione umana sono sì
limiti imposti da un essere trascendente ma questo stesso essere è
a sua volta limitato da una trascendenza ulteriore.
In ciò sono pienamente dispiegate le premesse di quella che Albert
Camus definirà rivolta metafisica, se non che il vero
atto di rivolta qui consiste nell’attenersi alle premesse in totale
fedeltà, al punto da rendere la rivolta un gesto pleonastico rispetto
alla consapevolezza da cui muoverebbe. Non si tratta qui di una questione
di legittimità o di legittimazione, poiché l’istanza
legittimante è di per se delegittimata. Si tratta piuttosto di
superare il problema così impostato come un falso problema. Qui
non si fa questione dei limiti della condizione umana posti dalla divinità
bensì del carattere problematico di tali limiti che, ove fossero
netti e definiti, configurerebbero un orizzonte entro il quale la sovranità
avrebbe modo di esercitarsi. E, tuttavia, rifiuta di farlo.
La sovranità è invero un equivoco che spetta all’abdicazione
redimere e così facendo, accedere alla regalità autentica.
Se il sovrano nella sua assolutezza è solo, è dal carattere
di tale solitudine che bisogna partire. La solitudine dell’io non
dipende dalla sua identità irripetibile e incomunicabile ma, al
contrario, dalla sua permeabilità e dalla sua onnipervasività:
dal suo abitare il reale nelle sue fratture ed essere da queste abitata,
come Il re degli interstizi, «signore di ciò che
sta fra cosa e cosa»[17], il cui regno tuttavia è equivoco
per essenza e ancora di più lo è perciò la natura
di colui che lo regge:
«Tutti
pensano che sia Dio, tranne lui»[18].
È
proprio della natura aristocratica adeguare la propria condizione alla
propria essenza. Dunque, se necessario, rifiutare gli onori attribuiti
nella misura in questi cui la legano a ciò che la nega. Accorre
a ciò l’esercizio dell’indifferenza come pratica di
distanziamento o meglio ancora di appropriazione del senso della distanza.
«Quello
che il sognatore deve cercare di sentire di fronte a ogni cosa è
la nitida indifferenza che essa, in quanto cosa, gli causa»[19].
Dalla
verità che, perché vista in sogno lo è in falsità,
il sognatore non deve lasciarsi sedurre, ma mantenere nella distanza il
suo carattere trascendente, perché non si tratta di appropriarsene,
ma di coglierla senza esaurirla nelle cose, senza essere da queste trattenuto.
Quasi alla stregua del mito platonico della biga alata, nel quale il filosofo
greco individua nel sensibile certamente una via per accedere all’idea
ma anche il rischio di un impedimento all’ascesa, nella misura in
cui si rimanga ad esso legati senza trascenderlo.
Il problema che si pone nel rapporto-frattura tra l’io e il mondo,
e la fallace risoluzione da cui è fin troppo facile lasciarsi sedurre,
è dunque l’identificazione.
Non coincidere con niente sarà allora un metodo e un compito esistenziale.
Abdicare sarà l’atto di sbattezzo supremo, per chi nella
fonte battesimale scopre la stessa acqua dell’abisso che egli stesso
è:
«Sono
mare; di sotto mareggiando verso l’alto ruggisco, / ma il mio colore
viene dal mio alto cielo / e mi incontro soltanto quando da me fuggo»[20].
L’esserci
umano non è mai un in-sé o, per dirla con Sartre,
un dato impastato di se stesso. È invece un per-sé
che si percepisce in maniera riflessa che «si fa qualificare, dal
di fuori, rispetto a un certo essere, come ciò che non
è questo essere»[21]. L’identificazione dunque
come sintesi plenaria della fluidità dei moti di coscienza con
la solidità dell’oggetto è impossibile. Non è
possibile neanche a priori pensandola in Dio.
«Dio
non ha unità, come potrei averla io?»[22].
La gettatezza di quello che sarà il da-sein (l’esser-ci)
heideggeriano si incontra profondamente in Pessoa con l’idea di
caduta così come concepita nelle varie espressioni storiche dello
gnosticismo, sebbene questo, come detto, non sia una professione di fede,
bensì una tendenza spirituale che l’arte di Pessoa abbraccia
in forme di folgoranti visioni metafisiche.
Questa convergenza, di istanze gnostiche e pre-esistenzialistiche, proietta
un lungo raggio su quella corrente carsica che costituirà poi il
pensiero negativo del '900, così come interpretato da
Hans Jonas, quale ritorno del nichilismo antico in quello moderno, con
la differenza che «l’uomo gnostico è gettato in una
natura antagonista, antidivina e perciò antiumana, l’uomo
moderno in una natura indifferente»[23].
L’indifferenza cesserà di essere ostile quando lo sguardo
remoto dell’ipotetico creatore e quello sgomento della creatura
umana, che è la stessa ipotesi sulla realtà del vedere,
si raccoglieranno, calando dalle rispettive torri, presso la nuda innocenza
dell’esistere.
Tra un Dio che si crede «uno e infinito»[24] - mentre il Faust
pessoano sa che «l’infinito è limitato»[25] -
e un re degli interstizi che «tutti pensano che sia Dio, tranne
lui»[26] volgiamo la nostra attenzione al Gesù Bambino abdicante
di Alberto Caeiro, poeta eteronimo semianalfabeta maestro di
tutti gli eteronimi e dello stesso Pessoa ortonimo, il Bambino scappato
dal cielo «troppo nostro / per fingersi la seconda persona della
Trinità».
Secondo Nietzsche, «il –Dio in croce- è una maledizione
scagliata sulla vita, un dito levato a comandare di liberarsene»[27],
un’umiliazione alla divinità stessa. Il piccolo Gesù
di Alberto Caeiro avverte la duplice umiliazione di essere crocifisso
e di essere un crocifisso piantato con un chiodo nel cielo, appeso nella
fede degli uomini e sorretto, come potesse ciò non di meno cadere
da un momento all’altro, dai loro sguardi distolti dalla terra,
ignorata come fosse un misero sgabello su cui salire per rimirare il cielo
più da vicino.
Il bambino scappato dalla casa celeste, per correre libero nei prati,
scalciando via la divinità, rimastagli appiccicata addosso nella
fuga come brandelli di uno scomodo abito da cerimonia, è colui
che lascia agli uomini quei suoi stracci perché la loro divinità
non venga riconosciuta. Perché gli arbusti che li trattengono siano
guardati come arbusti e niente più. E così le case, le persone,
gli animali e gli alberi tra cui si trovano. Che si rivelino come puramente
e semplicemente esistenti. Nient’altro. Perché da nessun
albero sporga come un frutto, proibito dalla cattiva coscienza che lo
appetisce, la rotonda e succosa tentazione di vedervi un simbolo o l’effetto
di una qualche causa suprema.
Perché l’essere cosciente di esistere non domandi a ciò
che semplicemente esiste di essere qualcosa più che esistenza;
perché impari la forza della vera umiltà che è quella
di vedere astenendosi dal credere o dal pensare a proposito di ciò
che si vede.
Il piccolo dio che abdica dal cielo dove «era tutto falso, tutto
in disaccordo», insegna a Caeiro a guardare le cose da
vicino ché da troni e cieli non si distinguono, annegati e confusi
nei confini degli imperi, fraintese clamorosamente da Dio stesso:
«Mi
dice che Dio non capisce niente / delle cose che ha creato»[28].
È
il Gesù bambino che abdica dai cieli, «così umano
da essere divino», divino nel disfarsi della divinità che
dona al poeta lo sguardo sulle cose, oltre il simbolo, oltre la cifra,
oltre il possesso. Lo sguardo che non si volge indietro a mirare il seggio
vuoto del trono abbandonato.
NOTE
[1] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine,
Milano, Feltrinelli, 1986, p. 33.
[2] F. Pessoa, Faust, Torino, Einaudi, 1989, p. 75.
[3] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, op. cit., p.
272.
[4] F. Pessoa, Faust, op. cit., p. 39.
[5] F. Pessoa, Una sola moltitudine, vol. 2, Milano, Adelphi,
1979, p. 27.
[6] F. Pessoa, Passaggio delle ore, in F. Pessoa, Una sola
moltitudine, Milano, Adelphi, 1979, p. 335.
[7] Ivi, p. 343.
[8] Ivi. p. 345.
[9] Sergio Givone, Storia del nulla, Bari, Laterza, 1995, p.
130.
[10] F. Pessoa, Passaggio delle ore, in F. Pessoa, Una sola
moltitudine, op. cit., p. 331.
[11] F. Pessoa, Tabaccheria, in F. Pessoa, Una sola moltitudine,
op. cit., p. 375.
[12] «Dio, se per il mondo è tutto, se è sostanza
ed essere del nostro essere, non è il nostro Dio più profondo».
In F. Pessoa, Faust, op. cit.
[13] Da Sulla tomba di Christian Rosencreutz: «Dio è l’uomo
di un altro Dio maggiore: / Supremo Adamo, anch’egli ebbe caduta,
/ Anch’egli, come fu nostro creatore / creato fu, e gli morì
la Verità».
[14] Ibidem.
[15] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, op. cit., p.
261.
[16] Ivi, p. 177.
[17] F. Pessoa, Il re degli interstizi, in F. Pessoa, Poesie
esoteriche, Milano, TEA, 2002, p. 31.
[18] Ibidem.
[19] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, op. cit., p.
206.
[20] F. Pessoa, Poesie esoteriche, op. cit., p. 93.
[21] Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, EST, 1997,
p. 215.
[22] Fernando Pessoa, Poesie esoteriche, op. cit., p. 67.
[23] Hans Jonas, Lo gnosticismo, Torino, SEI, 1958, 1991, p.
353.
[24] Fernando Pessoa, Faust, op. cit., p. 37.
[25] Ivi, p. 39.
[26] F. Pessoa, Poesie esoteriche, op. cit., p. 31.
[27] F. Nietzsche, La volontà di potenza, Milano, Bompiani,
1994, p. 554.
[28] F. Pessoa, Una sola moltitudine, vol. 2, op. cit., p. 89.
RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI
Givone,
Sergio, Storia del nulla, Bari, Laterza, 1995.
Jonas, Hans, Lo gnosticismo, Torino, SEI, 1958, 1991.
Nietzsche, Friedrich, La volontà di potenza, Milano, Bompiani,
1994.
Pessoa, Fernando, Faust, Torino, Einaudi, 1989.
Pessoa, Fernando, Il libro dell’inquietudine, Milano, Feltrinelli,
1986.
Pessoa, Fernando, Poesie esoteriche, Milano, TEA, 2002.
Pessoa, Fernando, Una sola moltitudine (2 volumi), Milano, Adelphi,
1979.
Sartre, Jean-Paul, L’essere e il nulla, EST, 1997.
Danilo
Mastropierro - danilomastro@hotmail.it
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