Dan
Alessandro Sabatta
La
filosofia, lo stile della solitudine
e il pensatore periferico
Tacitulus
taxim
(in silenzio piano piano)
Marco Terenzio Varrone
|
Giorgio
De Chirico, Le contrarietà del
pensatore, 1915, olio su tela, cm 46x38,
San Francisco, Museum of Modern Art. |
Per
cercare di comprendere la filosofia oggi, il senso del filosofare
nonché la sua concreta possibilità nel nostro presente
storico, per cominciare un breve cammino di riflessione in questa direzione,
dovremmo porci innanzitutto alcune domande essenziali, domande alle
quali non pensiamo di poter fornire risposte che abbiano pretese di
esaustività, visto che potrebbero di merito rappresentare la
chiave d’ingresso (e forse anche quella dell’uscita d’emergenza,
se mai qualcuno avesse pensato di cercarla) del labirinto delle questioni
filosofiche, ma che almeno ci garantiscano la possibilità di
proseguire al riparo dei sospetti. Cominciamo quindi con il chiederci
cosa sia la filosofia.
Platone affermerebbe che la filosofia è «l’uso del
sapere a vantaggio dell’uomo»[1].
Dopo il crollo dell’impresa titanica del costruire sistemi filosofici,
di trovare l’utile in visioni collettive, oggettive e formalizzate
dell’Essere e della conoscenza e il superamento della natura
come struttura decisiva dell’esperienza umana, che ci lascia in
eredità la vertiginosa «sensazione di trovarci tra le rovine
del pensiero e sul limitare delle rovine della storia e dell’uomo
in genere»[2], chi può porsi oggi lo stesso interrogativo?
Colui che l’itinerario filosofico lo ha compiuto, senza trovare
la luce della saggezza in cui Bene, Vero e Bello coincidono nel trionfo
divino a cui ascende il sapiente, ha trovato bensì la profondità
densa e impenetrabile di un reale in cui l’uomo di pensiero si
addentra, arrestandosi dinnanzi al vicolo cieco di quella suprema esigenza
pietrificata in impossibilità assoluta.
Perché dunque questo scacco?
Perché il pensiero tenta di rendere giustizia alla complessità
e nello stesso tempo tener salda in unità la propria fedeltà
a se stesso.
La complessità in cui l’uomo inoltra un pensiero che voglia
essere conoscenza e del mondo e di se stesso come sua parte, anziché
essere ritirato come una rete che tragga a sé ciò che
di prezioso è nel profondo, si lacera nelle insondabilità
del caos.
Il sapere non torna a nostro vantaggio. Non torna più
a nostro vantaggio.
Possiamo ora rinunciare a questo sapere?
Possiamo disfarci delle «indigeribili pietre del sapere»[3]
senza morire di fame nell’ignoranza?
Evidentemente no. Perché noi stessi siamo cresciuti con questo
sapere che ora ci è indigesto e perché l’oblio è
un fatto di ventura, buona o mala che si voglia, e non di decisione.
«Per quanto possiamo desiderare di porre rimedio ai disordini
nell’armonia naturale dell’uomo creata dalla coscienza,
non potremo pervenirvi con una resa della coscienza. Non esiste possibilità
di tornare indietro, di regredire all’innocenza»[4].
Altrettanto impossibile risulta qualsivoglia tentativo di sospensione
delle facoltà alla maniera di qualche dottrina orientale: liberazione
effimera e incapace di gettar radici in una terra che ha perduto il
silenzio; inoperante ogni esercizio del distacco per chi ha smarrito
la chiave della quiete nel vortice predatorio della frenesia, inefficace
l’abbandono, l’affrancamento dal legame, e non di meno l’emancipazione
della coscienza dalla tentazione del supplizio. «Come giungere
all’apogeo dell’indifferenza, quando la nostra stessa apatia
è tensione, conflitto, aggressività?»[5]. Chi ha
ricevuto in eredità la passione per la camicia di crine, la curiosità
più isterica e il vezzo di produrre tempo non può che
percepire in sogno il distacco dal divenire.
Dinnanzi all’impasse scettica il pensiero filosofico deperisce
o, piuttosto, non tenta di sopravvivere se necessario anche nutrendosi
delle proprie carni?
Se le esigenze da cui muove permangono pur nella consapevolezza della
contraddizione rispetto agli esiti cui è destinato, il pensiero
filosofico tenterà di sopravvivere proprio nel volersi mantenere
ostinatamente fedele a dette esigenze. Un pensiero ormai smarrito: vicoli
ciechi da un lato, dall’altro oltre pareti crollate, distese sterminate
di vuoto. Ecco quindi più che mai visibile, nella candida desolazione,
che la funzione di quegli edifici era non soltanto di sostenere, ma
anche di riparare, impedendo anche solo la minima percezione di quell’apocalisse
permanente, paga di sé, che attendeva solo il tempo di essere
svelata.
Sopravvivenza e mutazione.
Se l’habitat è quella dimensione in cui l’essere
ha tutto ciò che gli serve per vivere e prosperare, non vi sarebbe
ragione alcuna di spingersi oltre, a meno che esso non si riveli sterile.
Se oltre l’habitat normalmente conosciuto (e misurato) e ciò
non di meno divenuto ostile, poiché avaro di nutrimento, si scorgesse
un deserto, ebbene il deserto a questo punto meriterebbe di essere attraversato,
benché non vi sia parvenza di oasi in lontananza e neppure di
miraggi che, complici la fame e la sete, indurrebbero a crederle prossime.
Nel caos di un habitat che non è più se stesso si può
preferire il nulla, l’estrema rarefazione della vita in cui, per
sottrazione, è forse possibile accedere ad una trasparenza in
qualche modo simile ad una di quelle esigenze che l’habitat ormai
sterile si credeva potesse soddisfare, che è un’esigenza
di chiarezza.
Approdato a un nulla curiosamente simile a quello dei mistici, che è
il solo a sopravvivere a una strategia catastrofica che consuma certezze
e parvenze, la cui ricchezza si è vista deprezzata drammaticamente,
il pensiero deve imporre il suo ordine.
Il pensiero è inutile se non fa chiarezza. Se quindi non crea
un ordine a propria misura.
L’ordine in questo frangente può essere anche assai elementare
e giungere al punto limite in cui i suoi componenti oggettivabili sono
l’uomo solo ed il mondo che lo contiene.
Solitudine che diventa allora una nuova patria, «che
sa accogliere, proteggere, comprendere, illuminare, aprire e chiarire
tutto»[6], la stessa che con ardore invoca Zarathustra: «O
solitudine, tu patria mia, solitudine! Come a me parla, tenera e beata
la tua voce!»[7].
L’uomo solo, l’uomo assolutamente isolato che avverte la
schiacciante dismisura del mondo in cui si trova (o che si trova a trovare),
nella quale non può non rapportarsi a quest’ultimo se non
con l’umiltà che a questa dismisura si conviene. L’umiltà
che non si oppone all’insondabilità e all’imprevedibilità
potenzialmente annichilente in cui per necessità ha da stare.
L’ordine sempre provvisorio e sempre fallace che potrà
disporre intorno a sé è l’ordine che può
essere smosso dai venti del divenire che soffiano da direzioni non volute
e magari contrarie al senso di marcia, e che nondimeno si possono acquietare
ridonando all’uomo la placida immensità in cui egli è
finalmente ospite di tutto rispetto.
In questa geografia imperfetta e mutevole il nulla attraversato potrà
concedere un tutto a cui quindi non si chiede e non si deve chiedere
alcuna garanzia d’ordine assoluto; l’umiltà, se è
veramente tale, non potrebbe. A differenza che per i mistici, «ribelli
per vocazione»[8], che nella loro «suprema illusione»[9]
trovano un tutto in cui «lo spirito è sospeso, la riflessione
abolita, e con essa la logica dello smarrimento»[10].
Dunque la filosofia sopravvive a se stessa in questa palingenesi repentina
che costringe la coscienza a mutar forma “darwinianamente”.
Sotto un cielo impotente, la filosofia diventa «pensiero tormentato,
pensiero che si divora, e continua intatto o addirittura fiorisce a
dispetto (o forse a causa) di questi ripetuti atti di autocannibalismo»[11].
Lontano dalla tentazione e dall’urgenza di ogni forma di architettura
organica, il pensiero non potrà, se vuole essere onesto, che
«riconoscersi frammentario, disgregato, fatto di schegge di verità,
di provvisorie folgorazioni, di ipotesi sempre aperte»[12].
—
Ciò
che rimane immutato in questo panorama stravolto è solo il germe
della meraviglia, quel thaumazein che già Aristotele,
e prima di lui Platone, aveva riconosciuto come il principio, ovvero
la causa scatenante del pensiero filosofico, in virtù della quale
«gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora e in origine»[13].
Più che mai fervido, lo stupore si affaccia pertanto su orizzonti
nuovi, territori inesplorati, che possono offrire un humus reso inaspettatamente
fertile dalle ceneri di ciò che vide consumarsi, e dal quale
potrà sorgere un sapere rinnovato e singolare.
Ma non vi è sapere se non codificato. È codificato ciò
che è uguale a se stesso e che, rimanendo uguale a se stesso,
permette di rendere ragione della contraddizione, del mutamento e della
molteplicità.
Qual è il codice per eccellenza che consente non solo questo
rimando, ma anche, e forse soprattutto, la comunicabilità e quindi
la condivisione?
Questo codice è il linguaggio, ovvero l’interfaccia tra
uomo e mondo.
Tuttavia abbiamo detto che il sapere porta alla solitudine, non porta
vantaggio, isola. Quindi il linguaggio, che non è tale se non
è condiviso o quantomeno condivisibile e che ha lo scopo di saldare
il mondo di per sé frammentato e i mondi prospettivamente differenti
dei singoli individui, si trova dinnanzi al proprio limite.
Gli uomini usano le parole per designare, per poter dire tutti assieme
dinnanzi ad un albero che quello è un albero, dinnanzi ad un
cane che quello è un cane… Certo non si tratta qui di mettere
in dubbio l’utilità pratica della parola, almeno quando
questa è orientata verso oggetti concreti, ma di una concretezza
limitata, circoscritta, permeabile dai cinque sensi. Ma la filosofia,
per tradizione, mira appunto a superare mediante il pensiero la contingenza
degli enti finiti e limitati, e lo fa nella perentoria esattezza del
concetto.
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Auguste
Rodin, Il pensatore, 1880,
Musée Rodin, Parigi. |
Il
concetto in fondo non è che una forma di designazione, è
il tentativo di definire con la sola forza del pensiero che prende forma
verbale ciò che trascende la conoscenza empirica. Ma se è
sapere «intorno ai principi primi e alle cause»[14] è
quindi metafisica. Oltre la certezza se vogliamo banale e povera del
poter toccare, vedere, sentire, abbiamo l’incertezza raggelante
e indefinita che verrebbe da chiamare nulla solo in quanto innominabile.
Ecco che se di metafisica ancora possiamo parlare, possiamo farlo in
maniera affatto particolare, come si conviene a una condizione umana
che non potendo più dire molto circa le “categorie”
dell’essere, non può che dire di se stessa.
In questa condizione l’uomo è separato dalle cose, come
esse lo sono tra di loro; l’uomo è separato dagli altri
uomini dallo stesso linguaggio che aveva la funzione di unirli, qualora
travalichi la mera contingenza delle singole situazioni.
Se è vero che la funzione del linguaggio era quella di unire
attraverso la designazione a livello empirico e, attraverso il concetto,
di informare (nel senso di dar forma) popoli e civiltà, si tratta
a questo punto di riconnettere ciò che tende a fuggirsi e di
sostenere il peso della contraddizione in cui ogni cosa rischia di rovinare
sull’altra. Si tratta appunto di ricostruire un ordine la cui
provvisorietà richiederà a maggior ragione una sintesi
polita e perfetta di forma e contenuto. La concordanza tra l’irripetibile
condizione esistenziale del singolo e la sfuggente e dispersiva tensione
del mondo verso il caos, può e deve essere tenuta allacciata
e ben stretta da una parola tragicamente consapevole dei propri limiti
e che, proprio per questo, deve essere organizzata con più coerenza
e con legami interni più intensi di quanto i pezzi alla deriva
del mondo non possiedano.
Il linguaggio rivela così paradossalmente una vocazione demiurgica.
Questa coerenza, che è sì interna al linguaggio, ma si
allarga verso il mondo, si promana dalla soggettività in un tentativo
di riorganizzare il mondo in maniera inconfondibile.
Questo avviene inevitabilmente in forma artistica, attraverso la manipolazione
di un linguaggio che si emancipa da ogni costrizione. Nella mancata
rispondenza fra la parola e la cosa nominata, il risultato è
l’approdo al sarcasmo, all’ironia, al lirismo, perché
il linguaggio, proprio nel dover essere portato al limite, rivela una
plasticità che tuttavia non impedisce alla parola di deformarsi
nel raccogliere ciò che è refrattario ad esserlo.
La filosofia, dopo aver assistito alla frantumazione delle forme tradizionali
del discorso filosofico, dovrà cercare altrove la propria modalità
espressiva. «Le maggiori possibilità superstiti sono il
discorso mutilo, incompleto (l’aforisma, la nota, l’appunto)
o il discorso che arrischia la trasformazione in altre forme (la parabola,
la poesia, il racconto filosofico, l’esegesi)»[15].
L’esplosione, quindi, le «generalità istantanee»[16],
il pensiero discontinuo, la filosofia come frammento.
«Ormai non è più possibile mettersi a elaborare
un capitolo dopo l’altro in forma di trattato. Sotto questo aspetto
Nietzsche è stato sommamente liberatorio. Ed è stato lui
a sabotare lo stile della filosofia accademica, ad attentare
all’idea di sistema. È stato liberatorio perché,
dopo di lui si può dire tutto»[17].
La decadenza di una prosa, condizionata nel suo tendere alla perfezione
dalle pressioni del gusto, costretta ad una propria compiutezza
dagli imperativi della sintassi, ha quindi inevitabilmente compromesso
quello stile conforme alle esigenze di un pensiero che maturava al riparo
della raffinatezza di un epoca ormai trascorsa.
«Le parole hanno lo stesso destino degli imperi»[18].
Destino condiviso da chi non può prescindere da queste ultime,
a meno che non scelga il silenzio come estrema forma di espressione,
senza tentare di ricostruirne a tutti i costi la memoria. Colui che
oggi si sforza di raffigurare i tratti di un’era senza volto si
trova pertanto nell’impossibilità di appellarsi all’idea
di un pubblico, alla sua rassicurante vigilanza, alle sue richieste;
è un solitario che «non sa a chi si rivolge, né
si prefigura il suo lettore»[19].
Cercherà, nella sua privata iniziativa, di individualizzarsi
per mezzo di uno stile ricreato, di un’espressione che volge lo
sguardo all’indicibile; ma non potrà raggiungere il suo
obiettivo se non «smontando la lingua, violentandone le regole,
scalzandone la struttura, la sua magnifica monotonia»[20].
L’originalità di un discorso dovrà ora manifestarsi
in una necessaria quanto decisa opposizione al “classicismo”,
in una reazione spontanea al già acquisito, ormai incapace di
farsi portavoce dell’irrimediabile balzo e di ciò che ne
consegue.
La rottura stilistica rispetto alla tradizione espressiva della filosofia
sarà quindi il passo inevitabile per colui che vorrà divulgare
la propria esperienza e il proprio pensiero.
«Ogni tradizione viene rinnegata, perché l’oggetto
della comunicazione è inaudito»[21].
L’uomo che non ha più il conforto di un mondo rispondente
al concetto che egli se ne può fare, dovrà tuttavia continuare
a renderne ragione, e dunque a rendere ragione della molteplicità
di quello, e al tempo stesso, se non vorrà disperdervisi, tentare
altresì di saldarla nella propria unità personale.
È questione, direbbe Nietzsche, di «forza plastica interna»[22],
ossia di piegare a sé l’estraneo, il difforme, il molteplice,
sì che tale assimilazione possa dirsi riuscita allorquando ciò
che prima era minaccioso e potenzialmente ostile divenga nutrimento
per una nuova forza, che è appunto quella dello stile.
«Ogni pensiero, che rinunzi all’unità, esalta la
diversità. E la diversità è il tempio dell’arte»[23].
Nello stile si crea un rapporto irripetibile con l’alterità,
la si rende comunicabile (benché questo non sia il suo intento
primario, che è quello di stabilire un ordine nel caos).
Lo stile sarà dunque tanto più efficace, e risponderà
tanto meglio alle persistenti istanze di tipo filosofico da cui scaturisce,
quanto più forma e contenuto saranno cosa sola.
Non più tormentato dalla “perfezione”, insensibile
alle lusinghe della tradizione, il pensiero, nell’evanescenza
del suo scetticismo, cercherà nuovo spazio nella terra barbara,
oltre le rovine del limes sorretto dalle verità tutte,
e trarrà la sua vitalità dal sarcasmo, dall’ironia.
La tradizione rappresenta quel locus amenus in cui vi è
coincidenza tra l’esserci (la realtà mondana), il pensiero
e la vita, nell’unità dei rimandi e delle solidarietà
reciproche.
Il pensiero volto al molteplice farà i conti con questa tradizione,
proprio nel momento in cui la scoprirà già frantumata.
A quel punto rischierà di perdersi, esposto al naufragio alla
pari di quel molteplice che tenterà fuori tempo massimo di ricondurre
ad unità. Oppure, alla maniera del viandante di Nietzsche, approderà
alla riscoperta di un mondo divenuto nuovamente infinito, accettando
la suprema spoliazione dal regno perpetuo della filosofia perennis,
in una libertà povera, ma leggera, che è quella del profugo
che si scopre pellegrino.
La cultura come anche la vita empirica degli uomini si è trovata
spesso a cavallo tra più tradizioni in lotta fra loro, che si
sono specularmene scrutate, dando, implicitamente o meno, a se stesse
lo statuto di ortodossia, e alle altre quello di eresia. Si è
trattato il più delle volte, per la vita non meno che per il
pensiero, di installarsi e di stare in tale o in talaltra ortodossia.
Ma può anche capitare che al vivente-pensante la scelta si riveli
puerilmente fideistica, e dunque ripugni alla sua accortezza, alla sua
severità, e non ultimo alle sue più pure e intime esigenze
vitali. Stesso palesamento di fronte al quale può trovarsi chi,
in mancanza di una tradizione convincente, ne inventa una, sforzandosi
di «apparire come l’apice di una tradizione escogitata,
incarnata da lui»[24].
Ma scegliere di non scegliere è comunque una scelta. Scelta si
potrebbe dire vile, nella misura in cui si sottrae all’impegno
che ogni tipo di adesione comporta, e tuttavia scelta tanto più
gravosa quanto il disimpegno della “non scelta” si rivela
spesso assai duro da sostenere.
È proprio di certi spiriti vissuti in zone interstiziali della
storia del pensiero e della realtà umana avvertire l’angoscia
che una simile “libertà” dà. Strana angoscia
e strana libertà: l’interstizio costringe, soffoca, impedisce
il movimento, eppure ciò che da esso si vede e s’intravede
può avere portata e vastità ben maggiori di quelle concesse
dai singoli spazi che esso separa. Portata e vastità perfino
eccessive per chi voglia scorgere ben definita la linea dell’orizzonte
alle proprie spalle.
—
Proprio
in quanto l’esistenza umana è incarnata, le metafore che
si usano per riferirsi a realtà di ordine spirituale, ideale,
culturale, hanno un singolare riscontro empirico in cui l’allegoria
si esaurisce. Per cui osserviamo il caso di pensatori periferici interstiziali
proprio in luoghi votati dalla storia e dalla geografia ad una perifericità
di fatto rispetto all’ordine mondiale del momento.
E, come si è detto, questa prospettiva, questo habitat del margine
concede alcuni chiari ed evidenti vantaggi rispetto al centro.
Innanzitutto offre la possibilità di valutare la decadenza. La
periferia può cogliere i segni di decadenza in anticipo rispetto
al centro e con una visione complessiva che manca a chi nel centro risiede.
Di norma nei momenti di efficacia storica la periferia è ritardataria
rispetto al centro. Ma quando non si può più parlare di
efficacia, quando l’epoca che si vive è un’epoca
di decadenza, si assiste al capovolgimento delle parti. La periferia
in questo caso non giunge in anticipo nella creazione, ma nella visione;
visione di ciò che nel centro non ha più coesione, nel
moto centrifugo delle parti rispetto all’insieme, visione di ciò
che si disperde.
A questo punto la perifericità in quanto posizione privilegiata
può altresì essere creazione, mediante l’impressione
di una nuova forma, una nuova sintesi.
Il periferico si trova spesso ad essere dominato e a cambiare padrone,
e questa successione in un destino di asservimento lo porta a riflettere
sul carattere effimero del potere (carattere transeunte di ogni governo),
a vedere le cose in un’ottica storica. Il che però è
paradossalmente già una disposizione metafisica. Chi è
protagonista della storia la vive come propria storia. Chi ne è
vittima la vive come storia tout-court, quindi la vede all’insegna
della contingenza, e tra costoro chi riesce a resistere alla facile
tentazione del pregiudizio sulla storia matura una visione lucida della
stessa. Avere una visione equivale a creare: la visione è sintesi
e quindi creazione. Una creazione che non subisce più la tirannia
del centro, ma che crea essa stessa, prendendo elementi dalla dissoluzione
del centro stesso. «Il tempo favorisce alla lunga le nazioni incatenate
che, ammassando forze e illusioni, vivono nel futuro, nella speranza»[25].
Non subendo la decadenza, la periferia trattiene delle forze vitali
che il centro ha ormai dimenticato. La perdita di coesione del centro
permette il recupero di particolari che ad esso sono sfuggiti, che,
isolati dall’insieme, splendono sotto una luce nuova ancorché
fatale. Nella visione della disgregazione si trova ancora l’impronta
della coesione, ma gli elementi si distinguono in una maniera più
chiara, proprio in quanto elementi. Questi ultimi sono oggetto di una
nuova attenzione; anziché di un'azione vissuta, di una visione
meditata.
«La decadenza si manifesta in primo luogo nelle arti»[26];
mentre questo significa l’attardarsi: ritrovare nuova coesione
in forma letteraria e artistica e non in forma storica. Ci si riappropria
di ciò che è disperso e non più coeso attraverso
un’organizzazione, che è quella della prospettiva della
periferia che ha saputo cogliere lo scioglimento del centro. Consapevolezza
assai acuta del carattere storico delle realtà umane, con l’esigenza
di riassemblarle artisticamente. Non si parla qui di imitazione, dacché
una civiltà infeconda perde da subito la facoltà di sedurre,
di incitare gli altri a imitarla, ma appunto di una rielaborazione dell’eco
di un mondo che si sta ripiegando su di sé.
Così i frammenti del centro trovano diffusione e appiglio al
di fuori dei propri confini, come si osserva in quella che fu la storia
della Grecia, la quale «prevalse, nel campo dello spirito, soltanto
quando cessò di essere una potenza e perfino una nazione; si
saccheggiarono la sua filosofia e le sue arti, si assicurò una
fortuna alle sue opere, senza che però si potessero assimilare
le sue doti»[27].
Il grado di vitalità e d’istinto che distingue la periferia
dal centro, il quale soccombe al disagio della propria mancata supremazia,
sarà sostrato fertile per una ripresa di ciò che altrimenti
rimarrebbe irrimediabilmente schiacciato dal tempo.
Tradotto in termini concreti potremmo dire che l’attuale tramonto
dell’Occidente lascerà spazio alle forze vitali di nazioni
che sono rimaste per secoli all’ombra della storia, e che hanno
conosciuto solo sussulti senza seguito.
«Se, nonostante l’arbitrarietà del tentativo, ci
si divertisse a stabilire in Europa delle zone di vitalità,
si constaterebbe che più ci si avvicina all’Est, e più
si rivela l’istinto, che decresce invece a mano a mano che si
procede verso Ovest»[28].
Luoghi dell’Est. Nazioni dell’Est, quindi. Nazioni di certo
diverse le une dalle altre, divise perlopiù, dal passato spesso
divergente, ma che, «qualunque sia stato il loro passato e indipendentemente
dal loro livello di civiltà, dispongono tutte di un fondo biologico
che si cercherebbe invano in Occidente. Maltrattate, diseredate, precipitate
in un martirio anonimo, lacerate fra lo smarrimento e la sedizione,
esse conosceranno forse in avvenire un compenso a tante prove, umiliazioni,
e anche a tante viltà»[29].
Esse daranno vita a nuove solitudini, a nuove creazioni, a nuove meraviglie,
a sintesi sguaiate, a lucidità sgarbate….
…E il pensiero continuerà a sopravvivere, malgrado tutto.
NOTE
[1] Platone, Eutidemo.
[2] Susan Sontag, Interpretazioni tendenziose, Einaudi, Torino,
1975, p. 66.
[3] Friedrich W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della
storia per la vita, Adelphi, Milano, 1973, p. 32.
[4] Susan Sontag, Interpretazioni tendenziose, op. cit. , p.
69.
[5] Emile M. Cioran, La tentazione di esistere, Adelphi, Milano,
1984, p. 13.
[6] Carlo Carrara, La solitudine nelle filosofie dell’esistenza,
Franco Angeli, Milano, 2000, p. 31.
[7] Friedrich W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra,
Adelphi, Milano, 1989, p. 223-224.
[8] Emile M. Cioran, La tentazione di esistere, op. cit., p.
144.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Susan Sontag, Interpretazioni tendenziose, op. cit., p.
70.
[12] Luigi Bozzoli, Profili – Cioran, Canetti, Camus, Céline,
Pafpo , Milano, 1997, p. 15.
[13] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 11.
[14] Ibidem.
[15] Susan Sontag, Interpretazioni tendenziose, op. cit., p.
68.
[16] Emile M. Cioran, Un apolide metafisico (conversazioni),
Adelphi, Milano, 2004, p. 90.
[17] Ibidem.
[18] Emile M. Cioran, La tentazione di esistere, op. cit., p.
119.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974, p.
27.
[22] Friedrich W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno
della storia per la vita, op. cit., p. 30.
[23] Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 2000,
p. 112.
[24] Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, op. cit., p. 92.
[25] Emile M. Cioran, Storia e utopia, Adelphi, Milano, 1982,
p. 41.
[26] Emile M. Cioran, Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano,
1996, p. 154.
[27] Emile M. Cioran, Storia e utopia, op. cit., p. 35.
[28] Ibidem, p. 46.
[29] Ibidem, p. 47.
RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI
Aristotele, Metafisica, Bompiani,
Milano, 2000.
Bozzoli, Luigi, Profili – Cioran, Canetti, Camus, Céline,
Pafpo, Milano, 1997.
Camus, Albert, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 2000.
Carrara, Carlo, La solitudine nelle filosofie dell’esistenza,
Franco Angeli, Milano, 2000.
Cioran, Emile M., La tentazione di esistere, Adelphi, Milano,
1984.
Cioran, Emile M., Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano,
1996.
Cioran, Emile M., Storia e utopia, Adelphi, Milano, 1982.
Cioran, Emile M., Un apolide metafisico (conversazioni), Adelphi,
Milano, 2004.
Colli, Giorgio, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974.
Nietzsche, Friedrich W., Così parlò Zarathustra,
Adelphi, Milano, 1989.
Nietzsche, Friedrich W., Sull’utilità e il danno della
storia per la vita, Adelphi, Milano, 1973.
Sontag, Susan, Interpretazioni tendenziose, Einaudi, Torino,
1975.
Dan
Alessandro Sabatta - evabraun@hotmail.it
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