Dan Alessandro Sabatta

La filosofia, lo stile della solitudine
e il pensatore periferico

Tacitulus taxim
(in silenzio piano piano)

Marco Terenzio Varrone

 

Giorgio De Chirico, Le contrarietà del
pensatore
, 1915, olio su tela, cm 46x38,
San Francisco, Museum of Modern Art.

Per cercare di comprendere la filosofia oggi, il senso del filosofare nonché la sua concreta possibilità nel nostro presente storico, per cominciare un breve cammino di riflessione in questa direzione, dovremmo porci innanzitutto alcune domande essenziali, domande alle quali non pensiamo di poter fornire risposte che abbiano pretese di esaustività, visto che potrebbero di merito rappresentare la chiave d’ingresso (e forse anche quella dell’uscita d’emergenza, se mai qualcuno avesse pensato di cercarla) del labirinto delle questioni filosofiche, ma che almeno ci garantiscano la possibilità di proseguire al riparo dei sospetti. Cominciamo quindi con il chiederci cosa sia la filosofia.
Platone affermerebbe che la filosofia è «l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo»[1].
Dopo il crollo dell’impresa titanica del costruire sistemi filosofici, di trovare l’utile in visioni collettive, oggettive e formalizzate dell’Essere e della conoscenza e il superamento della natura come struttura decisiva dell’esperienza umana, che ci lascia in eredità la vertiginosa «sensazione di trovarci tra le rovine del pensiero e sul limitare delle rovine della storia e dell’uomo in genere»[2], chi può porsi oggi lo stesso interrogativo?
Colui che l’itinerario filosofico lo ha compiuto, senza trovare la luce della saggezza in cui Bene, Vero e Bello coincidono nel trionfo divino a cui ascende il sapiente, ha trovato bensì la profondità densa e impenetrabile di un reale in cui l’uomo di pensiero si addentra, arrestandosi dinnanzi al vicolo cieco di quella suprema esigenza pietrificata in impossibilità assoluta.
Perché dunque questo scacco?
Perché il pensiero tenta di rendere giustizia alla complessità e nello stesso tempo tener salda in unità la propria fedeltà a se stesso.
La complessità in cui l’uomo inoltra un pensiero che voglia essere conoscenza e del mondo e di se stesso come sua parte, anziché essere ritirato come una rete che tragga a sé ciò che di prezioso è nel profondo, si lacera nelle insondabilità del caos.
Il sapere non torna a nostro vantaggio. Non torna più a nostro vantaggio.
Possiamo ora rinunciare a questo sapere?
Possiamo disfarci delle «indigeribili pietre del sapere»[3] senza morire di fame nell’ignoranza?
Evidentemente no. Perché noi stessi siamo cresciuti con questo sapere che ora ci è indigesto e perché l’oblio è un fatto di ventura, buona o mala che si voglia, e non di decisione. «Per quanto possiamo desiderare di porre rimedio ai disordini nell’armonia naturale dell’uomo creata dalla coscienza, non potremo pervenirvi con una resa della coscienza. Non esiste possibilità di tornare indietro, di regredire all’innocenza»[4].
Altrettanto impossibile risulta qualsivoglia tentativo di sospensione delle facoltà alla maniera di qualche dottrina orientale: liberazione effimera e incapace di gettar radici in una terra che ha perduto il silenzio; inoperante ogni esercizio del distacco per chi ha smarrito la chiave della quiete nel vortice predatorio della frenesia, inefficace l’abbandono, l’affrancamento dal legame, e non di meno l’emancipazione della coscienza dalla tentazione del supplizio. «Come giungere all’apogeo dell’indifferenza, quando la nostra stessa apatia è tensione, conflitto, aggressività?»[5]. Chi ha ricevuto in eredità la passione per la camicia di crine, la curiosità più isterica e il vezzo di produrre tempo non può che percepire in sogno il distacco dal divenire.
Dinnanzi all’impasse scettica il pensiero filosofico deperisce o, piuttosto, non tenta di sopravvivere se necessario anche nutrendosi delle proprie carni?
Se le esigenze da cui muove permangono pur nella consapevolezza della contraddizione rispetto agli esiti cui è destinato, il pensiero filosofico tenterà di sopravvivere proprio nel volersi mantenere ostinatamente fedele a dette esigenze. Un pensiero ormai smarrito: vicoli ciechi da un lato, dall’altro oltre pareti crollate, distese sterminate di vuoto. Ecco quindi più che mai visibile, nella candida desolazione, che la funzione di quegli edifici era non soltanto di sostenere, ma anche di riparare, impedendo anche solo la minima percezione di quell’apocalisse permanente, paga di sé, che attendeva solo il tempo di essere svelata.
Sopravvivenza e mutazione.
Se l’habitat è quella dimensione in cui l’essere ha tutto ciò che gli serve per vivere e prosperare, non vi sarebbe ragione alcuna di spingersi oltre, a meno che esso non si riveli sterile. Se oltre l’habitat normalmente conosciuto (e misurato) e ciò non di meno divenuto ostile, poiché avaro di nutrimento, si scorgesse un deserto, ebbene il deserto a questo punto meriterebbe di essere attraversato, benché non vi sia parvenza di oasi in lontananza e neppure di miraggi che, complici la fame e la sete, indurrebbero a crederle prossime.
Nel caos di un habitat che non è più se stesso si può preferire il nulla, l’estrema rarefazione della vita in cui, per sottrazione, è forse possibile accedere ad una trasparenza in qualche modo simile ad una di quelle esigenze che l’habitat ormai sterile si credeva potesse soddisfare, che è un’esigenza di chiarezza.
Approdato a un nulla curiosamente simile a quello dei mistici, che è il solo a sopravvivere a una strategia catastrofica che consuma certezze e parvenze, la cui ricchezza si è vista deprezzata drammaticamente, il pensiero deve imporre il suo ordine.
Il pensiero è inutile se non fa chiarezza. Se quindi non crea un ordine a propria misura.
L’ordine in questo frangente può essere anche assai elementare e giungere al punto limite in cui i suoi componenti oggettivabili sono l’uomo solo ed il mondo che lo contiene.
Solitudine che diventa allora una nuova patria, «che sa accogliere, proteggere, comprendere, illuminare, aprire e chiarire tutto»[6], la stessa che con ardore invoca Zarathustra: «O solitudine, tu patria mia, solitudine! Come a me parla, tenera e beata la tua voce!»[7].
L’uomo solo, l’uomo assolutamente isolato che avverte la schiacciante dismisura del mondo in cui si trova (o che si trova a trovare), nella quale non può non rapportarsi a quest’ultimo se non con l’umiltà che a questa dismisura si conviene. L’umiltà che non si oppone all’insondabilità e all’imprevedibilità potenzialmente annichilente in cui per necessità ha da stare.
L’ordine sempre provvisorio e sempre fallace che potrà disporre intorno a sé è l’ordine che può essere smosso dai venti del divenire che soffiano da direzioni non volute e magari contrarie al senso di marcia, e che nondimeno si possono acquietare ridonando all’uomo la placida immensità in cui egli è finalmente ospite di tutto rispetto.
In questa geografia imperfetta e mutevole il nulla attraversato potrà concedere un tutto a cui quindi non si chiede e non si deve chiedere alcuna garanzia d’ordine assoluto; l’umiltà, se è veramente tale, non potrebbe. A differenza che per i mistici, «ribelli per vocazione»[8], che nella loro «suprema illusione»[9] trovano un tutto in cui «lo spirito è sospeso, la riflessione abolita, e con essa la logica dello smarrimento»[10].
Dunque la filosofia sopravvive a se stessa in questa palingenesi repentina che costringe la coscienza a mutar forma “darwinianamente”.
Sotto un cielo impotente, la filosofia diventa «pensiero tormentato, pensiero che si divora, e continua intatto o addirittura fiorisce a dispetto (o forse a causa) di questi ripetuti atti di autocannibalismo»[11].
Lontano dalla tentazione e dall’urgenza di ogni forma di architettura organica, il pensiero non potrà, se vuole essere onesto, che «riconoscersi frammentario, disgregato, fatto di schegge di verità, di provvisorie folgorazioni, di ipotesi sempre aperte»[12].

Ciò che rimane immutato in questo panorama stravolto è solo il germe della meraviglia, quel thaumazein che già Aristotele, e prima di lui Platone, aveva riconosciuto come il principio, ovvero la causa scatenante del pensiero filosofico, in virtù della quale «gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora e in origine»[13].
Più che mai fervido, lo stupore si affaccia pertanto su orizzonti nuovi, territori inesplorati, che possono offrire un humus reso inaspettatamente fertile dalle ceneri di ciò che vide consumarsi, e dal quale potrà sorgere un sapere rinnovato e singolare.
Ma non vi è sapere se non codificato. È codificato ciò che è uguale a se stesso e che, rimanendo uguale a se stesso, permette di rendere ragione della contraddizione, del mutamento e della molteplicità.
Qual è il codice per eccellenza che consente non solo questo rimando, ma anche, e forse soprattutto, la comunicabilità e quindi la condivisione?
Questo codice è il linguaggio, ovvero l’interfaccia tra uomo e mondo.
Tuttavia abbiamo detto che il sapere porta alla solitudine, non porta vantaggio, isola. Quindi il linguaggio, che non è tale se non è condiviso o quantomeno condivisibile e che ha lo scopo di saldare il mondo di per sé frammentato e i mondi prospettivamente differenti dei singoli individui, si trova dinnanzi al proprio limite.
Gli uomini usano le parole per designare, per poter dire tutti assieme dinnanzi ad un albero che quello è un albero, dinnanzi ad un cane che quello è un cane… Certo non si tratta qui di mettere in dubbio l’utilità pratica della parola, almeno quando questa è orientata verso oggetti concreti, ma di una concretezza limitata, circoscritta, permeabile dai cinque sensi. Ma la filosofia, per tradizione, mira appunto a superare mediante il pensiero la contingenza degli enti finiti e limitati, e lo fa nella perentoria esattezza del concetto.

Auguste Rodin, Il pensatore, 1880,
Musée Rodin, Parigi.

Il concetto in fondo non è che una forma di designazione, è il tentativo di definire con la sola forza del pensiero che prende forma verbale ciò che trascende la conoscenza empirica. Ma se è sapere «intorno ai principi primi e alle cause»[14] è quindi metafisica. Oltre la certezza se vogliamo banale e povera del poter toccare, vedere, sentire, abbiamo l’incertezza raggelante e indefinita che verrebbe da chiamare nulla solo in quanto innominabile. Ecco che se di metafisica ancora possiamo parlare, possiamo farlo in maniera affatto particolare, come si conviene a una condizione umana che non potendo più dire molto circa le “categorie” dell’essere, non può che dire di se stessa.
In questa condizione l’uomo è separato dalle cose, come esse lo sono tra di loro; l’uomo è separato dagli altri uomini dallo stesso linguaggio che aveva la funzione di unirli, qualora travalichi la mera contingenza delle singole situazioni.
Se è vero che la funzione del linguaggio era quella di unire attraverso la designazione a livello empirico e, attraverso il concetto, di informare (nel senso di dar forma) popoli e civiltà, si tratta a questo punto di riconnettere ciò che tende a fuggirsi e di sostenere il peso della contraddizione in cui ogni cosa rischia di rovinare sull’altra. Si tratta appunto di ricostruire un ordine la cui provvisorietà richiederà a maggior ragione una sintesi polita e perfetta di forma e contenuto. La concordanza tra l’irripetibile condizione esistenziale del singolo e la sfuggente e dispersiva tensione del mondo verso il caos, può e deve essere tenuta allacciata e ben stretta da una parola tragicamente consapevole dei propri limiti e che, proprio per questo, deve essere organizzata con più coerenza e con legami interni più intensi di quanto i pezzi alla deriva del mondo non possiedano.
Il linguaggio rivela così paradossalmente una vocazione demiurgica.
Questa coerenza, che è sì interna al linguaggio, ma si allarga verso il mondo, si promana dalla soggettività in un tentativo di riorganizzare il mondo in maniera inconfondibile.
Questo avviene inevitabilmente in forma artistica, attraverso la manipolazione di un linguaggio che si emancipa da ogni costrizione. Nella mancata rispondenza fra la parola e la cosa nominata, il risultato è l’approdo al sarcasmo, all’ironia, al lirismo, perché il linguaggio, proprio nel dover essere portato al limite, rivela una plasticità che tuttavia non impedisce alla parola di deformarsi nel raccogliere ciò che è refrattario ad esserlo.
La filosofia, dopo aver assistito alla frantumazione delle forme tradizionali del discorso filosofico, dovrà cercare altrove la propria modalità espressiva. «Le maggiori possibilità superstiti sono il discorso mutilo, incompleto (l’aforisma, la nota, l’appunto) o il discorso che arrischia la trasformazione in altre forme (la parabola, la poesia, il racconto filosofico, l’esegesi)»[15].
L’esplosione, quindi, le «generalità istantanee»[16], il pensiero discontinuo, la filosofia come frammento.
«Ormai non è più possibile mettersi a elaborare un capitolo dopo l’altro in forma di trattato. Sotto questo aspetto Nietzsche è stato sommamente liberatorio. Ed è stato lui a sabotare lo stile della filosofia accademica, ad attentare all’idea di sistema. È stato liberatorio perché, dopo di lui si può dire tutto»[17].
La decadenza di una prosa, condizionata nel suo tendere alla perfezione dalle pressioni del gusto, costretta ad una propria compiutezza dagli imperativi della sintassi, ha quindi inevitabilmente compromesso quello stile conforme alle esigenze di un pensiero che maturava al riparo della raffinatezza di un epoca ormai trascorsa.
«Le parole hanno lo stesso destino degli imperi»[18].
Destino condiviso da chi non può prescindere da queste ultime, a meno che non scelga il silenzio come estrema forma di espressione, senza tentare di ricostruirne a tutti i costi la memoria. Colui che oggi si sforza di raffigurare i tratti di un’era senza volto si trova pertanto nell’impossibilità di appellarsi all’idea di un pubblico, alla sua rassicurante vigilanza, alle sue richieste; è un solitario che «non sa a chi si rivolge, né si prefigura il suo lettore»[19].
Cercherà, nella sua privata iniziativa, di individualizzarsi per mezzo di uno stile ricreato, di un’espressione che volge lo sguardo all’indicibile; ma non potrà raggiungere il suo obiettivo se non «smontando la lingua, violentandone le regole, scalzandone la struttura, la sua magnifica monotonia»[20].
L’originalità di un discorso dovrà ora manifestarsi in una necessaria quanto decisa opposizione al “classicismo”, in una reazione spontanea al già acquisito, ormai incapace di farsi portavoce dell’irrimediabile balzo e di ciò che ne consegue.
La rottura stilistica rispetto alla tradizione espressiva della filosofia sarà quindi il passo inevitabile per colui che vorrà divulgare la propria esperienza e il proprio pensiero.
«Ogni tradizione viene rinnegata, perché l’oggetto della comunicazione è inaudito»[21].
L’uomo che non ha più il conforto di un mondo rispondente al concetto che egli se ne può fare, dovrà tuttavia continuare a renderne ragione, e dunque a rendere ragione della molteplicità di quello, e al tempo stesso, se non vorrà disperdervisi, tentare altresì di saldarla nella propria unità personale.
È questione, direbbe Nietzsche, di «forza plastica interna»[22], ossia di piegare a sé l’estraneo, il difforme, il molteplice, sì che tale assimilazione possa dirsi riuscita allorquando ciò che prima era minaccioso e potenzialmente ostile divenga nutrimento per una nuova forza, che è appunto quella dello stile.
«Ogni pensiero, che rinunzi all’unità, esalta la diversità. E la diversità è il tempio dell’arte»[23].
Nello stile si crea un rapporto irripetibile con l’alterità, la si rende comunicabile (benché questo non sia il suo intento primario, che è quello di stabilire un ordine nel caos).
Lo stile sarà dunque tanto più efficace, e risponderà tanto meglio alle persistenti istanze di tipo filosofico da cui scaturisce, quanto più forma e contenuto saranno cosa sola.
Non più tormentato dalla “perfezione”, insensibile alle lusinghe della tradizione, il pensiero, nell’evanescenza del suo scetticismo, cercherà nuovo spazio nella terra barbara, oltre le rovine del limes sorretto dalle verità tutte, e trarrà la sua vitalità dal sarcasmo, dall’ironia.
La tradizione rappresenta quel locus amenus in cui vi è coincidenza tra l’esserci (la realtà mondana), il pensiero e la vita, nell’unità dei rimandi e delle solidarietà reciproche.
Il pensiero volto al molteplice farà i conti con questa tradizione, proprio nel momento in cui la scoprirà già frantumata. A quel punto rischierà di perdersi, esposto al naufragio alla pari di quel molteplice che tenterà fuori tempo massimo di ricondurre ad unità. Oppure, alla maniera del viandante di Nietzsche, approderà alla riscoperta di un mondo divenuto nuovamente infinito, accettando la suprema spoliazione dal regno perpetuo della filosofia perennis, in una libertà povera, ma leggera, che è quella del profugo che si scopre pellegrino.
La cultura come anche la vita empirica degli uomini si è trovata spesso a cavallo tra più tradizioni in lotta fra loro, che si sono specularmene scrutate, dando, implicitamente o meno, a se stesse lo statuto di ortodossia, e alle altre quello di eresia. Si è trattato il più delle volte, per la vita non meno che per il pensiero, di installarsi e di stare in tale o in talaltra ortodossia. Ma può anche capitare che al vivente-pensante la scelta si riveli puerilmente fideistica, e dunque ripugni alla sua accortezza, alla sua severità, e non ultimo alle sue più pure e intime esigenze vitali. Stesso palesamento di fronte al quale può trovarsi chi, in mancanza di una tradizione convincente, ne inventa una, sforzandosi di «apparire come l’apice di una tradizione escogitata, incarnata da lui»[24].
Ma scegliere di non scegliere è comunque una scelta. Scelta si potrebbe dire vile, nella misura in cui si sottrae all’impegno che ogni tipo di adesione comporta, e tuttavia scelta tanto più gravosa quanto il disimpegno della “non scelta” si rivela spesso assai duro da sostenere.
È proprio di certi spiriti vissuti in zone interstiziali della storia del pensiero e della realtà umana avvertire l’angoscia che una simile “libertà” dà. Strana angoscia e strana libertà: l’interstizio costringe, soffoca, impedisce il movimento, eppure ciò che da esso si vede e s’intravede può avere portata e vastità ben maggiori di quelle concesse dai singoli spazi che esso separa. Portata e vastità perfino eccessive per chi voglia scorgere ben definita la linea dell’orizzonte alle proprie spalle.

Proprio in quanto l’esistenza umana è incarnata, le metafore che si usano per riferirsi a realtà di ordine spirituale, ideale, culturale, hanno un singolare riscontro empirico in cui l’allegoria si esaurisce. Per cui osserviamo il caso di pensatori periferici interstiziali proprio in luoghi votati dalla storia e dalla geografia ad una perifericità di fatto rispetto all’ordine mondiale del momento.
E, come si è detto, questa prospettiva, questo habitat del margine concede alcuni chiari ed evidenti vantaggi rispetto al centro.
Innanzitutto offre la possibilità di valutare la decadenza. La periferia può cogliere i segni di decadenza in anticipo rispetto al centro e con una visione complessiva che manca a chi nel centro risiede.
Di norma nei momenti di efficacia storica la periferia è ritardataria rispetto al centro. Ma quando non si può più parlare di efficacia, quando l’epoca che si vive è un’epoca di decadenza, si assiste al capovolgimento delle parti. La periferia in questo caso non giunge in anticipo nella creazione, ma nella visione; visione di ciò che nel centro non ha più coesione, nel moto centrifugo delle parti rispetto all’insieme, visione di ciò che si disperde.
A questo punto la perifericità in quanto posizione privilegiata può altresì essere creazione, mediante l’impressione di una nuova forma, una nuova sintesi.
Il periferico si trova spesso ad essere dominato e a cambiare padrone, e questa successione in un destino di asservimento lo porta a riflettere sul carattere effimero del potere (carattere transeunte di ogni governo), a vedere le cose in un’ottica storica. Il che però è paradossalmente già una disposizione metafisica. Chi è protagonista della storia la vive come propria storia. Chi ne è vittima la vive come storia tout-court, quindi la vede all’insegna della contingenza, e tra costoro chi riesce a resistere alla facile tentazione del pregiudizio sulla storia matura una visione lucida della stessa. Avere una visione equivale a creare: la visione è sintesi e quindi creazione. Una creazione che non subisce più la tirannia del centro, ma che crea essa stessa, prendendo elementi dalla dissoluzione del centro stesso. «Il tempo favorisce alla lunga le nazioni incatenate che, ammassando forze e illusioni, vivono nel futuro, nella speranza»[25].
Non subendo la decadenza, la periferia trattiene delle forze vitali che il centro ha ormai dimenticato. La perdita di coesione del centro permette il recupero di particolari che ad esso sono sfuggiti, che, isolati dall’insieme, splendono sotto una luce nuova ancorché fatale. Nella visione della disgregazione si trova ancora l’impronta della coesione, ma gli elementi si distinguono in una maniera più chiara, proprio in quanto elementi. Questi ultimi sono oggetto di una nuova attenzione; anziché di un'azione vissuta, di una visione meditata.
«La decadenza si manifesta in primo luogo nelle arti»[26]; mentre questo significa l’attardarsi: ritrovare nuova coesione in forma letteraria e artistica e non in forma storica. Ci si riappropria di ciò che è disperso e non più coeso attraverso un’organizzazione, che è quella della prospettiva della periferia che ha saputo cogliere lo scioglimento del centro. Consapevolezza assai acuta del carattere storico delle realtà umane, con l’esigenza di riassemblarle artisticamente. Non si parla qui di imitazione, dacché una civiltà infeconda perde da subito la facoltà di sedurre, di incitare gli altri a imitarla, ma appunto di una rielaborazione dell’eco di un mondo che si sta ripiegando su di sé.
Così i frammenti del centro trovano diffusione e appiglio al di fuori dei propri confini, come si osserva in quella che fu la storia della Grecia, la quale «prevalse, nel campo dello spirito, soltanto quando cessò di essere una potenza e perfino una nazione; si saccheggiarono la sua filosofia e le sue arti, si assicurò una fortuna alle sue opere, senza che però si potessero assimilare le sue doti»[27].
Il grado di vitalità e d’istinto che distingue la periferia dal centro, il quale soccombe al disagio della propria mancata supremazia, sarà sostrato fertile per una ripresa di ciò che altrimenti rimarrebbe irrimediabilmente schiacciato dal tempo.
Tradotto in termini concreti potremmo dire che l’attuale tramonto dell’Occidente lascerà spazio alle forze vitali di nazioni che sono rimaste per secoli all’ombra della storia, e che hanno conosciuto solo sussulti senza seguito.
«Se, nonostante l’arbitrarietà del tentativo, ci si divertisse a stabilire in Europa delle zone di vitalità, si constaterebbe che più ci si avvicina all’Est, e più si rivela l’istinto, che decresce invece a mano a mano che si procede verso Ovest»[28].
Luoghi dell’Est. Nazioni dell’Est, quindi. Nazioni di certo diverse le une dalle altre, divise perlopiù, dal passato spesso divergente, ma che, «qualunque sia stato il loro passato e indipendentemente dal loro livello di civiltà, dispongono tutte di un fondo biologico che si cercherebbe invano in Occidente. Maltrattate, diseredate, precipitate in un martirio anonimo, lacerate fra lo smarrimento e la sedizione, esse conosceranno forse in avvenire un compenso a tante prove, umiliazioni, e anche a tante viltà»[29].
Esse daranno vita a nuove solitudini, a nuove creazioni, a nuove meraviglie, a sintesi sguaiate, a lucidità sgarbate….
…E il pensiero continuerà a sopravvivere, malgrado tutto.

NOTE
[1] Platone, Eutidemo.
[2] Susan Sontag, Interpretazioni tendenziose, Einaudi, Torino, 1975, p. 66.
[3] Friedrich W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 1973, p. 32.
[4] Susan Sontag, Interpretazioni tendenziose, op. cit. , p. 69.
[5] Emile M. Cioran, La tentazione di esistere, Adelphi, Milano, 1984, p. 13.
[6] Carlo Carrara, La solitudine nelle filosofie dell’esistenza, Franco Angeli, Milano, 2000, p. 31.
[7] Friedrich W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1989, p. 223-224.
[8] Emile M. Cioran, La tentazione di esistere, op. cit., p. 144.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Susan Sontag, Interpretazioni tendenziose, op. cit., p. 70.
[12] Luigi Bozzoli, Profili – Cioran, Canetti, Camus, Céline, Pafpo , Milano, 1997, p. 15.
[13] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, p. 11.
[14] Ibidem.
[15] Susan Sontag, Interpretazioni tendenziose, op. cit., p. 68.
[16] Emile M. Cioran, Un apolide metafisico (conversazioni), Adelphi, Milano, 2004, p. 90.
[17] Ibidem.
[18] Emile M. Cioran, La tentazione di esistere, op. cit., p. 119.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974, p. 27.
[22] Friedrich W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, op. cit., p. 30.
[23] Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 2000, p. 112.
[24] Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, op. cit., p. 92.
[25] Emile M. Cioran, Storia e utopia, Adelphi, Milano, 1982, p. 41.
[26] Emile M. Cioran, Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano, 1996, p. 154.
[27] Emile M. Cioran, Storia e utopia, op. cit., p. 35.
[28] Ibidem, p. 46.
[29] Ibidem, p. 47.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000.
Bozzoli, Luigi, Profili – Cioran, Canetti, Camus, Céline, Pafpo, Milano, 1997.
Camus, Albert, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 2000.
Carrara, Carlo, La solitudine nelle filosofie dell’esistenza, Franco Angeli, Milano, 2000.
Cioran, Emile M., La tentazione di esistere, Adelphi, Milano, 1984.
Cioran, Emile M., Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano, 1996.
Cioran, Emile M., Storia e utopia, Adelphi, Milano, 1982.
Cioran, Emile M., Un apolide metafisico (conversazioni), Adelphi, Milano, 2004.
Colli, Giorgio, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano, 1974.
Nietzsche, Friedrich W., Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1989.
Nietzsche, Friedrich W., Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 1973.
Sontag, Susan, Interpretazioni tendenziose, Einaudi, Torino, 1975.

Dan Alessandro Sabatta - evabraun@hotmail.it