Francesco Boco
Dal
quaderno nero
Solchi
incisi nel vuoto
Il metodo radicale
Quando
ci si trova davanti ad un problema, per trovarne la soluzione, bisogna
cercarne la radice, e quando questo problema sia profondamente radicato
e diffuso bisognerà iniziare un’opera di scavo molto dura
e penetrante. Di per sé la volontà di superare l’uomo
non ha nulla di errato, ma quando la sua applicazione produce automi,
depotenzia e disumanizza, si crea una situazione statica che impedisce
ogni miglioramento e impiego proficuo delle tecnologie.
La sfida più grande a cui siamo chiamati in molte occasioni consiste
nel riuscire a trarre il massimo beneficio da situazioni di grave crisi.
È in questi casi che l’ingegno si risveglia e il pensiero
ci toglie la gran parte delle energie, quasi fosse un cammello che le
conserva per la traversata del deserto. È poi un esercizio utile
applicare tattiche capaci di stupire perfino noi stessi nella soluzione
dei problemi di tutti i giorni.
La vita attuale è soffocata da oggetti, parole e burocrazia fino
a costringerla al sonno profondo e al mutismo: se ci guardassimo dall’esterno
forse sembreremmo più un mondo di cicale piuttosto che di formiche,
incapaci di progettare il futuro, delegandone la gestione ad altri. Vivere
è scegliere ciò che si vuole essere, ma scegliere significa
assumersi una responsabilità che non tutti accettano. Anzi, quasi
nessuno.
Cercare di arrivare all’essenziale, al minimo indispensabile alla
vita, questo potrebbe essere un buono modo per vedere le cose nella loro
nuda realtà, strappando loro il velo d’illusione e accettando
ogni cosa per come è, distruggendo i nostri castelli di sabbia
– semplificare al limite le necessità esterne, per potenziare
le spontaneità interne. Operare dunque attraverso una ricerca che
riduca all’osso l’influenza dell’esterno sulla nostra
interiorità, risvegliare la vita creativa dispersa in inutili oggetti
senza valore.
Rivestire di molte parole un concetto non serve a migliorarne la comprensione.
Un haiku ben scritto è spesso più profondo e incisivo di
un lungo trattato.
Mostrare il volto disumano e disgregato della società è
realizzabile attraverso un procedimento filosofico di esasperazione ed
estremizzazione della realtà e del possibile. Provocare il rigetto
in profondità e scavare dei solchi profondi di presa di coscienza
sugli aspetti che appaiono talvolta più positivi. Spingere alle
estreme conseguenze ogni esempio, ogni formula filosofica, ogni pensiero,
testandone la resistenza, la validità alle massime altitudini;
cercando non shock fine a se stesso, ma un colpo secco al cuore capace
in un lampo di mostrare le cose nella loro cruda e crudele realtà,
strappare ogni illusione e ogni speranza, annichilire e sprofondare provocando
una purificazione dalle scorie del superficiale. Giuseppe Rensi e la sua
filosofia dell’assurdo.
Insistere sui tasti dolenti, sulle ferite aperte, essere crudeli costringendo
il nichilismo a spingersi al suo limite, sfidarlo nel suo stesso terreno,
l’abisso, giungendo fino all’estremo punto in cui avvenga
il rovesciamento, la risalita.
Poco importa di ciò che normalmente viene ritenuto reale, nella
società dell’immagine tutto è artificiale e quasi
nulla è arte, si deve insistere sui casi estremi del reale, immaginare
le estreme conseguenze ed esiti radicalizzando il discorso fino al limite
estremo, in cui poche brevi parole possano racchiudere il senso.
Spogliare ogni divinità dei suoi ornamenti, distruggerli fino a
giungere all’essenza, alla sua verità minima e concreta,
fino a quel nucleo indistruttibile rimasto coperto e occultato. Questo
metodo può essere applicato in ogni situazione.
Solo
nelle situazioni al limite, solo spingendo le cose alle estreme conseguenze,
si può cogliere un afflato di autenticità. Solo nella costante
lotta del caos si esprime la creatività totale, essa emerge dall’assurdo
per poi farne ritorno; l’intuizione rompe il muro della quotidianità
e permette di vedere attraverso anche solo per un istante. È un
procedimento che richiede fatica e tempo.
Il
racconto di Ernst Jüger Il problema di Aladino s’inserisce
perfettamente in quest’ottica, esasperando il lettore in un crescendo
di disgusto per la mercificazione della morte di cui si narra nelle pagine
del libro. Applicazione perfetta di un metodo radicale capace di togliere
il fiato e al contempo di costringere la domanda decisiva: «come
uscire da questa situazione?»
Ma non se ne esce, ciò che conta è come si sta in essa,
come viene vissuta. La vera libertà è l’interiore,
ci dice l’autore, e una volta superata la decisiva crisi radicale
si può fare il peggior lavoro al mondo, non venendone condizionati
e intaccati. Quando si indossa una maschera, bisogna poi essere capaci
di toglierla.
«La scienza va vista nell’ottica dell’artista»,
scrive Nietzsche, nel processo tecnologico la possibilità di creatività
è conservata dall’arte. Essa può spiritualizzare ciò
che è meccanico. Non si esce dal nulla senza averlo affrontato,
e si sbaglia domanda se si chiede: «quando ne uscirò?»
Adeguare le proprie forze alle condizioni estreme è forse la migliore
prova di nichilismo attivo.
Semplificazione
non significa necessariamente un di meno di complessità.
Quando si raggiunge un elevato grado di semplificazione e si arriva all’essenziale,
al minimo, allora non si perdono significati, ma si ha piuttosto una stratificazione.
Un aumento di densità e una diminuzione di volume. Un discorso
netto, semplificato ed essenziale.
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