Il teatro Gilles de Rais
di Alessandro Chalambalakis

 

Al di là di facili e acritiche apologie del negativo, la vicenda di Gilles de Rais desta un interesse, per quanto mi riguarda, distaccato. Tuttavia, essa rimane significativa in quanto indicativa di quella grottesca farsa interna alla cristianità stessa. La pusillanimità nel conferire cieca fiducia a quei ciarlatani che gli promisero un contatto col diavolo a paradossale scopo di redimerlo e quella richiesta singhiozzante di perdono davanti ai giudici e a Dio stesso, sono i segni di una puerile demenza che, in un mostro come Gilles de Rais, ha del patetico e che nello scenario cristiano tardomedievale assume tutte le caratteristiche della tragicommedia.

«A ben guardare, le contraddizioni di Gilles de Rais riassumono la situazione cristiana, e non possiamo provare stupore a proposito della commedia, la cui logica volle che egli sgozzasse il maggior numero di bambini, che si votasse al demonio, ma che non rinunciasse alla salvezza della sua anima eterna».[1]

In ogni caso, la vicenda di questo sbirro medievale, di questo sceriffo di Francia, di questa sorta di cattivo tenente alla vigilia della modernità, è comunque ridicola vicenda del basso e del fango. Questa volta però, la poltiglia è situata fin dentro la religiosità medievale medesima.

Gilles de Rais nasce nel 1404. Nel 1415 - in seguito alla morte di Marie de Craon e di Guy de Laval, rispettivamente madre e padre - passa sotto la tutela del nonno materno Jean de Craon. Il giovane de Rais, figlio del suo tempo, erede di due ricchissime signorie feudali, sotto i cinici insegnamenti del nonno, non esita a vivere al di sopra della legge e disprezzando il resto del mondo nell’oziosa, egoista e sregolata ricerca del piacere così tipica dei feudatari del tempo. Contrariamente al nonno, Gilles non è portato alla razionalità strategica e interessata ma piuttosto allo sperpero irrazionale e privo di contenimenti. Inebriato dal potere e dalla lascivia ignora persino i suoi stessi interessi economici votando ogni cosa alla dilapidazione. Il conflitto col nonno è inevitabile ma il vecchio, stanco e impotente, cede alla furia del giovane che nel 1424 reclama l’amministrazione di ogni suo bene. Le brillanti doti militari di Gilles lo condurranno, tramite la luogotenenza del ducato d’Angiò, affidata dapprima al nonno da Jolanda d’Aragona (suocera di Carlo VII), a condurre, nel 1427, a capo di un esercito dell’Angiò, una campagna contro gi Inglesi che si rivelerà vincente. Gli uomini di Carlo VII conquisteranno difatti numerose fortezze. Nel 1428 gli Inglesi assediano Orléans e Gilles, grazie alla politica del parente Georges de La Trémoille, si unisce alla liberazione della città compiuta da Giovanna d’Arco. Nel 1429, de Rais, verrà nominato maresciallo di Francia.

Gilles de Rais

In battaglia Gilles de Rais si distinse particolarmente non solo per le doti ma anche per la crudeltà e la dissennata furia omicida tanto che Bataille, parlando di mostruosità e puerilità ne lega le azioni e i comportamenti a una sopravvivenza di taluni aspetti della tradizione guerriera degli antichi Germani (Berserkir) nell’educazione dei cavalieri medievali:

«Si deve pensare che nell’educazione dei cavalieri, almeno nei primi secoli del Medioevo, qualcosa di queste usanze barbare rimase. Non c’è dubbio che, prima di ogni altra cosa, la cavalleria fu una semplice continuazione della società dei giovani iniziati dei Germani. Nell’educazione dei cavalieri, l’influenza cristiana è posteriore. Essa non risale oltre il XIII o XII secolo. Ossia due o tre secoli prima di Gilles de Rais».[2]

Gli eccessi, il gusto per le carneficine e per il vivere al di sopra di tutto è dunque tipico non solo della guerra e del disordine dei soldati durante i saccheggi ma, a maggior ragione, di quell’uomo che, in seguito alla morte del nonno (1432) si abbandonò talmente tanto al godimento di uccidere che oltrepassò lo stesso ambito trasgressivo concessogli dal rito di guerra. Stando agli atti processuali, gli omicidi, le torture e gli stupri di infanti ad opera di Gilles de Rais iniziarono difatti l’anno della morte del nonno Jean de Craon. L’unico freno rimasto ai suoi scatenamenti era dunque scomparso. La discesa di uno sfrenato dissoluto come Gilles fu, da questo momento in poi, inevitabile. Gli anni che andarono dal 1432 al 1440 furono letteralmente gli anni del delirio. A partire poi dalla morte di La Trémoille, il titolo di maresciallo perse completamente il suo valore e condusse la gloria di de Rais verso la decadenza. Tutto questo inaugurò paradossalmente il periodo maggiormente sfarzoso e dispendioso del feudatario. Sfarzo che, accompagnato dalla pratica delle maggiori efferatezze immaginabili rese paurosamente veloce la sua corsa verso la catastrofe. È infatti a questo periodo che risale la devastante dilapidazione di beni a Orléans e tutti i tentativi disperati di evocazioni diaboliche al fine di essere salvato da quel diavolo stesso davanti al quale de Rais tremava ossequiosamente e religiosamente.

Non mi interessa ora soffermarmi sulla descrizione delle violenze, delle sevizie e degli omicidi rituali di de Rais - si tratta in fondo di cronache leggibili in qualsiasi biografia – ma evidenziare piuttosto il notevole ritardo della giustizia nella scoperta dei suoi misfatti. Ritardo dovuto a motivazioni contestualizzabili a livello storico-sociale. L’alto rango nobiliare del maresciallo di Francia unito al comune disinteresse istituzionale dell’epoca per le fasce popolari, considerate alla stregua di bestie da soma, non permise alcun intervento della giustizia. Finché le dicerie pubbliche non crebbero a dismisura, finché Gilles non volse la sua furia omicida anche verso alcune fanciulle della piccola nobiltà e, soprattutto, finché quei privilegi nobiliari del mondo feudale non iniziarono a tramontare, la giustizia fu completamente disinteressata ai crimini di Gilles. Il declino di de Rais è infatti profondamente legato al declino del Medioevo medesimo, al declino di quel mondo in cui il feudo la faceva da padrone indiscusso e i cui i privilegi dunque iniziavano lentamente a scemare. Le indagini tuttavia non arrivarono a lui fino al momento nel quale non venne arrestato per motivi di altra natura: dopo aver venduto il castello di Saint-Étienne-de-Mermorte, Gilles pensò, contro ogni buon senso, di riprenderselo con le armi mettendosi contro Geoffroy Le Ferron, tesoriere di Giovanni V e fratello di Jean Le Geoffroy che godeva dell’immunità ecclesiastica. Giovanni V nel 1440 fece così prigioniero de Rais, arrestandolo e rinchiudendolo nelle prigioni di Nantes.

«L’assurdo affare di Saint-Étienne aveva dato l’abbrivo alla macchina della giustizia che per molto tempo ancora avrebbe potuto non commuoversi esageratamente per dei giovani pezzenti che venivano sgozzati da un così gran signore».[3]

La sua prima reazione di fronte alle accuse dei giudici fu quella di riempirli di insulti. Accusò loro di essere dei simoniaci farabutti ma costoro reagirono in modo inflessibile scomunicandolo senza indugi.

«A quei tempi, la scomunica aveva un potere che atterriva. Gilles de Rais poté esteriormente porsi al di sopra dei suoi giudici. Ma il devoto superstizioso che malgrado i suoi crimini e le sue ricerche sataniche egli era sempre stato, non resse».[4]

L'impiccagione di Gilles de Rais

Il 15 ottobre 1440 dunque confessò. Rassegnato, confessò tutto tra i singhiozzi, i pianti, le preghiere e le atroci e disordinate ma minuziose descrizioni di ogni sua nefandezza, di ogni sua scelleratezza, di ogni suo gesto folle, delirante, criminale e inebriato di sangue. L’esibizionismo dei criminali, afferma Bataille, non è estraneo alla confessione, anche se si mischia al pentimento. Lo scopo sembra essere quello di esibirsi e mostrarsi anche in una paradossale commozione mista a terrore, sgomento e paura degli ascoltatori. La teatralità di de Rais è confermata dalle sue richieste. Dopo aver ottenuto, in seguito alla confessione, la revoca della scomunica, ottenne anche che gli fosse tenuta una processione dell’intero popolo, guidata dallo stesso vescovo, fino al patibolo e, inoltre, ottenne, dopo l’impiccagione, che il suo corpo fosse tolto dalle fiamme del rogo prima di ardere completamente, al fine di essere messo in una bara da porre nella chiesa del convento dei Carmelitani di Nantes.

«E così anche la sua morte fu l’occasione di un fasto teatrale».[5]

Leggo la biografia di Gilles de Rais che Bataille, con documenti e atti del processo alla mano e con l’aiuto del latino di Klossowski, ha tracciato. Rimango colpito dalle sottolineature batailleane di quegli aspetti di dispendio e magnificenza associati a quell’attitudine istrionica e teatrale del maresciallo di Francia ma non posso fare a meno di giungere a un giudizio il cui esito è di nuovo distacco, mancanza di syn-patheia per il nostro cattivo tenente. Contrariamente a quanto può capitarmi leggendo di altri protagonisti di storie inferiori, c’è in Gilles de Rais una pusillanimità, una debolezza e una frigneria che lo rendono non all’altezza (o se vogliamo alla bassezza) del mostro che è stato. Bataille, e qui sta la grandezza intuitiva dello scrittore che in qualche modo rivive il personaggio in questione, non interpreta banalmente il pentimento di Rais di fronte ai giudici come il risultato della minaccia di tortura. Non fa la solita tiritera anti-inquisitoria per la quale inesistenti crimini venivano confessati a causa del dolore inflitto. Giustamente, tale tiritera interpretativa è inapplicabile al caso ‘de Rais’ in quanto egli era innanzitutto un potente, un signore, un feudatario, maresciallo di Francia, liberatore di Orleans assieme a Giovanna d’Arco; non di certo un povero contadino qualsiasi accusato di stregoneria e conseguentemente torturato. Inoltre de Rais non fu mai torturato ma, è il caso di dirlo, solo minacciato di tortura. La confessione-pentimento di Gilles, dunque, scrive Bataille, non sarebbe dovuta alla tortura ma, alla luce delle commedianti peculiarità del personaggio, a una sua volontà di portare il suo protagonismo e la sua eccentricità - e con esse la sua grottesca ridicolaggine – fin dentro la morte, nel gran finale di una paradossale commozione di quello stesso popolo da cui il signorotto aveva attinto a piene mani le sue vittime. De Rais brucia sul rogo dunque, ma brucia per pochi istanti. Non brucia, in realtà, come i veri inquisiti e, tra la folla commossa, urlante e nuovamente inebetita di panem et circenses, viene trasportato in una degna bara da ricco signore feudatario quale fu. Poco importa se signorotto pederasta, omicida, sgozzatore di bambini e assiduo eiaculatore su cadaveri di infanti, la bella e curata bara, espressione di degna onoranza funebre lo aspetta.

Ecco il motivo per cui Bataille, a mio avviso può permettersi di scrivere che la tragedia di de Rais è una tragedia interna al cristianesimo stesso. Il cristianesimo senza pentimento e senza confessione non è nulla. Ma è proprio questa confessione e questo pentimento che ne svelano la grottesca commedia, la gigantesca farsa, incapace persino di dare al basso ciò che è del basso. Siamo lontani da un Elagabalo ucciso dalle sue stessa guardie, smembrato, gettato a mo’ di spezzatino nelle cloache romane, dannato nella memoria e ulteriormente sfregiato a livello storico nel suo comparire nelle fonti come radicale estraneo e nemico irriducibile. Qui invece, il mostro, il divoratore, l’omicida, il pio e devoto stregone dall’anima cristiana è religiosamente perdonato e appena un po’ abbrustolito ma per nulla strappato alla grazia e all’onore della sepoltura. Un nuovo senso di inferiorità ci si presenta qui: non un’inferiorità irrecuperabile, tragica, irrimediabile e ineluttabile in quanto unica soluzione degna del crimine contro il cielo ma un inferiorità data dal fatto che la buffoneria e la farsa, nel pentimento, conducono persino il mostro fin dentro la pietas. E la pietas non è rispetto del mostro ma dell’uomo che, grottescamente, assurdamente e teatralmente, in punto di condanna di morte, ha pianto per essere stato quel mostro. La grandezza del mostro, al contrario, sta nella sua imperdonabilità, nel suo morire nel non-senso della dismisura. La commedia capricciosa e al contempo spettacolare di Gilles de Rais costituisce invece quella bizzarra commedia che è il pentimento medesimo.

NOTE
[1] G. Bataille, Il processo a Gilles de Rais, Milano, Guanda, 1982, p. 11.
[2] Ivi, p. 31.
[3] Ivi, p. 64.
[4] Ivi, p. 66.
[5] Ivi, p. 69.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Bataille, Georges, Il processo di Gilles de Rais, Milano, Guanda, 1982.
Ferrero, Ernesto, Barbablù - Gilles de Rais e il tramonto del Medioevo, Torino, Einaudi, 2004.


Alessandro Chalambalakis - los@ctonia.com