Manuela
Simoni
Erzsébet
Báthory: un autoritratto doppio
[II parte]
Nota: Il presente scritto, diviso in
due parti, è da considerarsi una biografia romanzata che prende
sì spunto da fonti storiche ma in modo letterario e senza alcun
tipo di intento storiografico in senso stretto.
...Continua
da Ctonia -2
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György
Thurzó, conte palatino di Ungheria. |
I rapporti
con Ferenc invece cambiarono radicalmente. Se prima lui si era sempre
espresso molto infastidito dalle mie lettere e dai miei racconti, dove
gli spiegavo emozionata le torture che prediligevo infliggere, adesso
mi veniva impedito di parlargliene. Era scostante e schivava la mia
presenza. L'idea di dover passare una notte nel letto con me lo rendeva
inquieto e quasi riluttante benché non riuscisse a nascondere
l'attrazione che continuava a nutrire per me. Mi osservava camminare
per la casa con occhi carichi di desiderio ma ad un mio contatto rabbrividiva
e si allontanava con qualche pretesto. Mi voleva ma qualcosa gli impediva
di avermi ancora e questo sentimento, il non riuscire a possedere qualcosa
che si desidera ciecamente pur avendolo tra le mani, lo faceva sentire
impotente e lo tormentava. Sembrava aver perso interesse per la guerra
che aveva colmato da sempre la sua vita e perlopiù trascorreva
le sue giornate rinchiuso nella preghiera. Sapevo bene che sia le urla
delle mie giovani che le mie risate compiaciute arrivavano fino a lui
disturbando la sua ricerca di redenzione. Tuttavia mai accennò
al fatto. Se ero impegnata in altro poteva vedersi tranquillo sapendomi
lontana.
Smise perfino di accompagnarmi alle serate e ai banchetti a cui venivamo
costantemente invitati ma questo non mi scoraggio nella ricerca della
perfezione fisica.
Posso solo dire che i suoi rifiuti, più che infastidirmi, mi
spinsero a ricercare il piacere in diverso modo. In quello stesso modo
che comunque avevo riscoperto più appagante dell'atto sessuale
medesimo.
Diventata una figura invisibile potevo muovermi senza alcuna paura e
agire come meglio credevo. Ogni mia giornata si svolgeva come più
desideravo, volta alla sola cura del corpo e alla tortura. Tuttavia
non riuscivo a sentirmi mai completamente soddisfatta: la paura di ritornare
a quelle giornate noiose che tanto avevano rattristato la mia esistenza
mi ossessionava a tal punto da spingermi a decidere spesso di partire.
Facevo preparare la carrozza, senza neppure preoccuparmi di avvisare
Ferenc riguardo la mia destinazione e mi assicuravo di essere circondata
da degni compagni di viaggio. Non potevano chiaramente mancare il mio
fedele Ficzkò, le mie damigelle, alcuni maghi o fattucchiere
desiderose di conoscere la singolarità delle mie pratiche che
tanto amavo descrivere loro e, naturalmente, un gran numero di fanciulle
da seviziare durante il viaggio. Quindi, quando la voglia di tortura
giungeva (e accadeva all'improvviso sopratutto quando il mal di testa
iniziava a cogliermi), ordinavo che fosse fermato il convoglio e facevo
portare al mio cospetto una delle ragazze. Stando seduta tranquilla
sui morbidi cuscini della carrozza iniziavo allora a mortificarne le
carni con lunghi spilloni. Vedere le labbra innocenti rese ancor più
rosse dal sangue, lucide e umide mi colmava di gioia.
Capendo che questo mio desiderio mai avrebbe trovato esaurimento, mai
si sarebbe spento, decisi di fare costruire una stanza apposita per
queste pratiche. Doveva essere situata lontana dalle camere comunemente
frequentate di modo che io godessi della totale libertà di espressione
poiché, durante le torture, ciò che amavo di più
era poter strillare i miei comandi, gridare la mia eccitazione e sentirmi
libera di agitarmi e muovermi come meglio credevo. Spiegavo a gran voce
come gli spilli dovevano essere conficcati sotto le unghie e quando
il sesso delle ragazze veniva bruciato con una candela mi piaceva urlare
e ridere a gran voce. Destino poi volle che quella sala delle torture,
situata in posizione così nascosta nelle segrete del castello,
si rivelò determinante. Ferenc morì e la mia dimora accolse
tutti i parenti per i funerali. Io potevo così agire indisturbata
senza destare alcun sospetto sui miei ospiti.
Ben
sapendo di essere ancora molto ammirata, sia tra gli uomini che tra
le donne, mi piaceva camminare tra loro con passo elegante e sinuoso,
avvolta nel mio abito di lutto che dialogava in modo così spettrale
con la mia pelle bianca e coi miei occhi grandi e neri. Mi divertivo
a sedurre con tale maestria e in modo così sottile i miei ospiti
da non lasciar modo di parlar male di me ma solo di dubitare sulla natura
ambigua delle mie provocazioni. Gli occhi erano sempre puntati su di
me ma quando mi avvicinavo o discorrevo, la gente non si faceva mai
troppo vicina e di certo cercava di evitare qualsiasi contatto fisico.
Se già prima correvano strane voci in merito a me e alla mia
famiglia, adesso le persone si chiedevano sgomente fra loro se io fossi
davvero la contessa crudele che tanto malamente veniva descritta. Chiacchiere
superflue perché in cuor loro tutti già conoscevano la
risposta.
Il pastore di Csejthe, Jan Ponikenus, così come il suo predecessore,
fu incaricato più volte di seppellire corpi di giovani donne
morte al castello ma malgrado le leggende che circolavano nei dintorni,
aveva deciso di credere ai racconti delle mie damigelle che gli spiegavano
di come una strana epidemia avesse sottratto alla vita quelle sventurate.
Ma quell'uomo non si rivelò affatto fidato come speravo e fu
una fortuna per me scoprire per tempo che la sua intenzione era quella
di denunciare i suoi sospetti raccontando di quelle sepolture misteriose
che mi ero premurata avvenissero solo di notte, lontane da sguardi indiscreti.
Mandai i miei servi da lui con il compito di dissuaderlo dalle sue intenzioni
e, malgrado tutt'oggi ancora ignori di quali doti si avvalsero per farlo
tacere, con gioia appresi che il loro compito fu portato a termine con
successo.
Ma non solo quell'uomo fece il tentativo di diffamare la mia reputazione.
Fattesi sempre più consistenti le dicerie sul mio conto, il tutore
dei miei figli, Megyery il Rosso, un giorno venne personalmente a farmi
visita e guardandomi con cattiveria mi disse che, se le voci che mi
descrivevano come strega perversa non fossero cessate, avrebbe denunciato
i suoi sospetti al palatino György Thurzó, rappresentante
di Mattia Imperatore di Ungheria. Ricordo che quella sera mi fu impossibile
trattenere una risata di sarcastico disprezzo che lasciò l'uomo
interdetto e sorpreso. Lo cacciai via a gran voce dicendo di fare quello
che credeva giusto senza riuscire a smettere di ridere e lo osservai
mentre abbandonava il castello a passo svelto, sconvolto dalla mia reazione.
In quanto a me, per nulla ero rimasta scossa da simili minacce e più
ripensavo a quella sera e alla faccia sbigottita e attonita di Megyery
più mi si colmavano le labbra di risa. Thurzó era un lontano
mio parente e sapevo che, il suo principale scopo, era quello di mantenere
alto il nome della nobile famiglia Báthory e che tutto avrebbe
messo a tacere pur di non vederne macchiato il nome.
Un
giorno però accadde qualcosa che fu per me illuminante ma che
forse, al contempo, segnò la mia condanna. Era una giornata d'autunno,
la testa mi doleva terribilmente ed ero decisamente nervosa. Vestivo
di uno splendido abito bianco che la sarta aveva appena terminato di
confezionare ma quel pomeriggio non mi piaceva affatto come la luce
illuminava il mio viso. Le nubi si rincorrevano pesanti in un cielo
cupo, inghiottendo gli ultimi sprazzi di sereno e annunciando un temporale
i cui tuoni erano ancora distanti e sommessi.
Mentre una serva era intenta a massaggiarmi le caviglie con una pomata
creata per me nel mio laboratorio, un’altra mi spazzolava i capelli
con cura. Ma a causa di una sua disattenzione, con la spazzola d'argento,
mi tirò una ciocca ed io, già nervosa, non riuscii a trattenere
la mia ira. Mi alzai di scatto e la colpii con tutta la forza di cui
ero capace. Subito il suo naso iniziò a sanguinare copiosamente
sporcandomi l'abito e le mani. L'altra serva si affretto subito a pulirmi
ma io la fermai con un cenno della mano. Mentre la domestica ferita
tratteneva il suo dolore e il suo spavento restando silenziosa e cercando
di fermare la fuoriuscita di sangue io facevo la scoperta che mi avrebbe
per sempre mantenuta giovane. Scoppiai in una sonora e prolungata risata
ed iniziai a saltellare e a fremere come una bambina: laddove la mia
pelle era stata bagnata col sangue adesso appariva più giovane,
più luminosa.
La gioia mi esplose in petto, il cuore mi batteva forte e gli occhi
mi luccicarono come mai prima. Ordinai immediatamente che la serva venisse
dissanguata e che la mia vasca da bagno fosse riempita del suo sangue.
La giovane tremante, che ancora cercava di medicarsi con l'ampia manica
del suo abito, mi osservò per un istante incredula. Quando due
donne la presero con forza per le braccia questa iniziò a scalciare
come impazzita. «No! No!» Urlava. E continuava a strillare
e gemere probabilmente senza ancora realizzare realmente quello che
stava accadendo. Quando mi vide armata di coltello strattonò
con forza coloro che la tenevano imprigionata riuscendo a divincolarsi.
Le due la lasciarono libera. La sventurata si guardò intorno
spaurita, alla disperata ricerca di una via di fuga, gli occhi sgranati
e gonfi di terrore come quelli di una cerbiatta intrappolata in una
tagliola. Non esisteva salvezza per lei ed io avanzavo lentamente nella
sua direzione saziandomi della sua paura. Ella iniziò ad indietreggiare
disperata e una volta raggiunto l'angolo della stanza a me più
distante vi si acquattò. Sembrava così piccola, rannicchiata
in quella posizione, così indifesa. Lasciai cadere a terra il
coltello e mi ci feci più vicina. Guardandola dall'alto al basso
le carezzai la folta chioma corvina con delicatezza materna. «Su,
su.» Le dissi mentre l’aiutavo ad alzarsi.
«Padrona, vi supplico… Non ho fatto nulla di male!»
Singhiozzava senza smettere di tremare. «Lo so.» Le dissi
mentre le cingevo la vita. Con l'altra mano le sfiorai il viso in modo
che mi guardasse negli occhi. La baciai con estrema dolcezza, quel viso
di bimba, così puro e innocente. Baciai via le sue lacrime salate
e la tenni stretta. Lei, incapace di sostenere oltre il mio sguardo,
si abbandonò al mio abbraccio. Il suo viso, poggiato sulla mia
spalla, scoppiò in un pianto liberatorio. Era più sollevata
adesso, più tranquilla. Sentivo il suo corpo gracile e magro
contro di me, tuttavia vitale come solo quello di una giovane fanciulla
può essere.
La spinsi via con forza facendole sbattere la nuca forte contro il muro.
Dalle sue labbra sfuggì un grido di puro terrore. L'intera stanza
era satura del suo panico. Si lanciò verso la porta alla ricerca
di fuga ma una delle mie fedeli la costrinse nuovamente verso di me.
Era in trappola, le sue stesse amiche la stavano spingendo verso la
morte. Iniziai a ridere forte avvicinandomi a lei che cercava di sfuggirmi
strisciando lontano.
«Spogliatela!» Comandai quando quel gioco iniziò
a stancarmi e mentre due la tenevano ferma, io stessa aiutai una serva
ad adempiere l’ordine. Iniziai a strapparle la stoffa dell'abito
senza smettere di ridere, graffiandola, tirandole i capelli per poi
ritornare svelta a raccogliere il coltello. Mi concessi un ultimo sguardo
alla giovane che, malgrado la sua fine imminente, cercava disperatamente
di coprire le sue nudità davanti a noi. Glielo impedii brutalmente
ordinando che le fossero legate mani e piedi e restai ad osservarla:
quel corpo ossuto, quei seni così piccoli e rosei, quel casto
ciuffo di peli scuri a coprirle quel luogo che mai sarebbe stato da
un uomo profanato. Afferrandola per i capelli iniziai a trascinarla
verso la vasca da bagno mentre le altre la spingevano e la strattonavano.
Con piacere mi voltavo di continuo a guardare i volti delle serve, che
apparivano posseduti ed estatici mentre la costringevano alla fine.
Era forse per la troppa paura che una simile sorte fosse possibile anche
per loro che tanta sadica euforia le aveva colte? O forse, finalmente,
al mio fianco potevano sentirsi libere di dare sfogo anch'esse ai loro
istinti erotici e violenti sorprendentemente affiorati a causa mia?
Le presi i polsi e le aprii le carni con la lama. A fondo, lentamente.
Recidendo quelle vene azzurre che tanto spiccavano sotto la pelle bianca
e sottile. Tenendole le braccia alte sulla vasca lasciavo che il mio
sguardo seguisse il flusso del sangue, passando da lei al mio bagno,
dal mio bagno a lei.I miei occhi dovevano apparirle molto grandi per
l'emozione, il mio viso doveva essere arrossito dal piacere. Le sue
gambe cedettero facendosi sempre più deboli, la adagiammo quindi
sul bordo della vasca. Mentre ancora il sangue scorreva copioso, con
tanta forza che non avrei creduto, iniziai, non potendo più attendere
oltre, a spogliarmi delle mie vesti. Mi immersi in quel nettare caldo
dall'odore così dolce sentendomi avvolgere, sentendo che la mia
pelle già ingoiava forza e giovinezza. Per una vita che si spegneva
la mia rinvigoriva con una potenza che, solo chi come me l'ha provata,
può comprendere. Mentre una domestica mi passava un panno imbevuto
sul collo, sulle spalle e sulla schiena, massaggiandomi delicatamente,
la vittima riversa sul bordo ancora batteva le sue lunghe ciglia bagnate
di lacrime e sangue, ancora i suoi polmoni tentavano debolmente di carpire
l'aria. Ed io non staccavo i miei occhi da lei, carezzandole le gote
che si facevano sempre più pallide.
Fu meraviglioso. Già sentivo i suoi effetti. Basta inutili cosmetici
da ciarlatani! Adesso le lozioni e le pomate sarebbero state create
in diversa maniera. Era certo che la mia scoperta non andava affatto
sottovalutata. Le mie abluzioni diventarono un rito con tanto di importanti
accortezze che non andavano certo tralasciate. Immergendomi nel sangue
di una fanciulla ne assorbivo la linfa vitale, l’energia. Era
quindi importante che la vittima fosse molto giovane e di singolare
bellezza. Ma un’altra cosa essenziale era che il sangue era efficace
solo se appena sottratto, quando ancora manteneva il suo calore. Purtroppo
però troppo in fretta si faceva gelido ed era necessario trovare
una valida soluzione.
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Strumenti
chirurgici della prima età moderna. |
L'illuminazione
mi giunse inaspettata, lasciandomi stupita, balenatami nella mente in
un istante. Un grande aiuto nel suo perfezionamento mi fu dato dal mio
servo Fizckò che si dimostrò di grande ingegno: le serve
scelte per il sacrificio venivano sistemate in una cassa di ferro appoggiata
al muro, molto simile ad una bara metallica ma squisitamente lavorata
da prendere le sembianze di una donna. Una volta che il coperchio del
sarcofago veniva chiuso, alcune punte spesse ed acuminate, in esso situate,
si conficcavano nella carne dell'imprigionata pur senza ledere organi
vitali. E proprio in virtù di questo sistema che il sangue della
vittima tenuta in vita il più a lungo possibile poteva scendere
lentamente e sempre caldo. Ad essa era collegato un meccanismo che canalizzava
il liquido espulso dai corpi direttamente in una vasca da bagno.Così
mandavo il mio devoto servo Ficzkò e Katalina Beniezey detta
Katà, una delle mie fedelissime, alla ricerca di giovani ragazze
per poter ripetere il mio personale rituale di sangue. All'inizio non
era difficile trovare vittime sottratte alle loro case anguste con la
promessa di poter diventare domestiche di una nobile nonché bellissima
contessa. Annebbiate dalla fame e distrutte dal freddo le poveracce
non si facevano certo pregare a lasciare la vecchia vita per nuove prospettive.
Ed io potevo di nuovo dare giovinezza al mio corpo ancora e ancora,
avvolta dal piacere e immersa nella loro linfa.
Meditare sul mio modo di agire tanto inusuale non era una cosa che mi
era solita fare ma lo studio delle arti oscure non faceva altro che
confermarmi quanto nelle mie azioni non vi fosse nulla di errato. Fermamente
convinta che le leggi dell'uomo nulla avessero a che vedere con le leggi
di natura, tutto il mistero della vita sembrava dunque risolversi nella
semplice dialettica di preda e predatore, di vittima e carnefice. Ero
una forza incontrastata, torturavo e uccidevo per piacere e perché
alleviava il mio male. L'urlo delle mie vittime era diventato per me
la musica più dolce. La lama che lacerava le carni era per me
l’atto erotico più grande. Osservavo i corpi fanciulleschi,
spogliati, immobilizzati. Quella pelle morbida e pulita, candida e lucida.
Mi sentivo colma di insana tenerezza e desiderio. E quando davo inizio
alla pratica e vedevo quegli occhi che si dilatavano per l'incredulità
e per la paura, quelle carni che vibravano leggermente, quelle labbra
socchiuse per liberare un gemito, mi sembravano l'opera d'arte più
completa. Quando poi il sangue iniziava a scorrere sui seni, sui fianchi
e lungo il mento, tracciava geroglifici illeggibili facendo apparire
tutto il corpo ancora più meraviglioso e degno di essere contemplato.
Il piacere era carezzare i corpi, le ferite, gli orifizi e gli organi.
Quei gusti dolci e morbidi che sentivo scendere giù per la gola
e che appagavano i miei sensi più del vino pregiato. Il piacere
era sentire il respiro affannoso e irregolare della vittima. Baciare,
mordere e leccare. Eccitare, sottomettere e godere. Leggere la paura
e celebrare la potenza incontrastata. Sapere di essere l'unica a poter
decidere se firmare o meno una condanna.
Quando il dolore era insopportabile la giovane tratteneva il respiro
forse sperando di trovare accoglimento nella morte quindi, dopo qualche
breve istante di immobilità, ritornava a contorcersi e ad agitarsi
per quel poco che le era concesso. Allora io non potevo fare altro che
baciarla, vinta dalla tenerezza, alleviare il suo dolore con le mie
carezze per poi ritornare allo strazio del suo organismo. Sentire implorare
pietà mi colmava di gioia e aumentava il mio furore.
Continuavo ad uccidere, senza tregua, senza rimorsi.
La mia bramosia di infliggere dolore per placare la mia furia era divenuta
come la droga per un moribondo. Un pizzico di rabbia mi coglieva nel
rendermi conto di essere io stessa schiava dei miei vizi, delle mie
passioni, dei miei eccessi, della mia spaventosa natura. Tuttavia la
libertà è sempre qualcosa di tragico. Per questo le religioni
positive hanno sempre fallito. Il sacrificio non libera dal male bensì
ci immerge in esso mettendoci faccia a faccia con quell’abisso
che è al contempo libertà e tragedia.
Non pensai mai di smettere.
—
Quando
ero costretta a viaggiare, le rare volte che venivo invitata a qualche
banchetto al quale la mia posizione sociale non mi permetteva di mancare,
spesso venivo presa da convulsioni ed emicranie. Sentirmi lontana da
casa, dai miei unguenti e dai miei elisir, dalle mie pratiche magiche
e dalle mie torture mi rendeva agitata, inquieta. Allora il mio amato
Fickzò si offriva di cercarmi vittime da portare alla mia carrozza
per darmi modo di placare il mio dolore e la mia rabbia. Oh com'ero
riconoscente al mio servo, fedele ed onesto. Mai avrei potuto chiedere
persona migliore al mio fianco.
Ai banchetti fingevo di non udire le voci che circolavano sul mio conto,
le più bizzarre supposizioni sul mio modo di vivere. Se qualcuno
più sfrontato mi si avvicinava e osava indagare io gli rispondevo
sarcastica senza smentire e senza dare certezze. Godevo nel vedere come
un brivido di eccitazione penetrasse sempre il mio interlocutore, soggiogato
dalla mia voce e dal mio sguardo. Adoravo vedere gli uomini bruciare
di desiderio per me e mi divertivo a stuzzicare i loro i sensi in tutti
i modi che il tempo mi aveva insegnato.
Sapevo che mai nessuno aveva saputo amarmi, nemmeno Ferenc ci era mai
riuscito. Un dio lo si può temere ma non lo si può amare.
Dalla paura non scaturisce amore così come dal senso di pericolo
non scaturisce fiducia. Ero temuta e questo mi piaceva.
Non ero per nulla stupita delle dicerie sul mio conto. Dopotutto ero
preparata al fatto che prima o poi le persone avrebbero iniziato a parlare
di me. Anche questo mi rendeva fiera. La mia non era mai stata imprudenza
ma solo una naturale conseguenza al corso delle cose: la servitù
nel mio castello iniziava a scarseggiare poiché io, come un lupo
che crescendo aumenta la sua fame, ero divenuta insaziabile. Le voci
sulle mie inusuali pratiche si erano diffuse tra il popolo che troppo
spesso rifiutava l'offerta di un lavoro al mio cospetto. Nel novembre
del 1607 fui invitata al matrimonio della seconda figlia di Thurzó
a cui avrebbero partecipato gli uomini più potenti del paese.
Le nozze prevedevano una durata di nove mesi nei quali gli inviati avrebbero
trovato dimora nel castello dei novelli sposi, tra danze e banchetti,
nell'attesa della nascita del primo figlio. La sola idea di dovermi
assentare così a lungo dal mio castello, accessoriato su misura
per ogni mio tipo di esigenza, mi gettava nel panico. Tuttavia, la mia
assenza a quell'evento non avrebbe fatto altro che dare un’ulteriore
conferma ai troppi sospetti che aleggiavano intorno alla mia figura.
Accadde che durante il viaggio venni presa da una crisi che si rivelò
più terribile delle solite. Mi venne subito condotta una serva
contro la quale mi accanii con violenza lacerando le sue carni con spilloni,
in profondità e senza darle tregua. Fu forse proprio a causa
della mia accecante ferocia che la situazione mi sfuggì di mano.
Non so nemmeno spiegarmi come sia potuto accadere ma la fanciulla riuscì
a liberarsi dalla mia presa e a fuggire lontano, nel bosco, nascondendosi
tra la coltre di neve che imbiancava ogni cosa. Certo era che non le
avrei permesso di fuggire, mai. I miei fedeli si lanciarono al suo inseguimento,
cercandola per il bosco, tra i tronchi ghiacciati e incespicando nella
neve. Quella neve che ci fu amica svelandoci le impronte dei suoi passi.
Neve a me complice ma traditrice per la serva.
Era stupefacente vedere come ogni cosa poteva essere ambigua, avere
due facce a seconda di chi guardava. Uno dei tanti modi attraverso il
quale si comprende come bene e male, piacere e dolore siano troppo implicati
l’uno nell’altro.
Poche ore furono sufficienti a ritrovare la serva che, spaurita e infreddolita,
si era accovacciata contro una roccia. Subito mi fu ricondotta. Ero
furibonda. Quello spiacevole evento servì a darmi ispirazione
per una nuova tortura. Per tutto l'inverno il mio diversivo principale
divenne quello di prendere giovani ragazze, condurle all'sterno e disporle
in cerchio con delle torce in mano. La prescelta invece si ritrovava
nuda e intrappolata all'interno di esso e ogni qual volta tentava la
fuga, le sue carni, venivano ustionate dal fuoco. Mi occupavo personalmente
di gettargli addosso secchiate d'acqua che, con il freddo di quella
stagione, impiegava davvero poco a gelare. Oh come mi emozionava quello
spettacolo. E come mi eccitava vedere le serve accanite e senza pietà
scagliarsi crudelmente contro una sciagurata per aver salva la vita.
Uno spettacolo penoso che si ripeteva ogni volta. Mai nessuna ragazza
al mio cospetto si era rifiutata di eseguire un mio ordine. In quanto
a questo nuovo diversivo, lo ritenevo una delle mie migliori idee. Nuove
statue di ghiaccio per il mio giardino…
Durante le nozze della figlia di Thurzó, comunque, il pomeriggio
mi rendevo irreperibile, annoiata dalle solite inutili chiacchiere di
una nobiltà così prevedibile nei suoi interessi e nei
suoi gusti. Cavalcavo per intere giornate e facevo dono della mia presenza
solo ai banchetti serali. Anche provocare gli ospiti divenne noioso,
quindi, perlopiù, me ne rimanevo in disparte senza alcuna intenzione
di partecipare alle discussioni e senza mai concedere un sorriso o partecipare
ad una conversazione. Questo mio comportamento freddo e distaccato,
questo mio guardare gli ospiti con lo stesso interesse che volgevo al
cane che scodinzolava ai miei piedi non fece altro che alimentare le
dicerie su di me. Era come se avessi gettato un ramo secco nel fuoco.Si
tramava alle mie spalle. Il re Mattia aveva incaricato il cardinale
Forgàch di indagare su il mio conto e questi si era rivolto proprio
a Thurzó.
L'accanimento del cardinale nei miei confronti era dovuto sopratutto
al fatto che fossi di famiglia protestante e che fosse troppo diffusa
la voce che ero solita praticare atti di vampirismo. Tuttavia mi sentivo
serena in quanto sapevo che Thurzó mi avrebbe protetta dalle
accuse. Nemmeno questa volta mi sbagliai e venni a sapere che egli si
limitò a chiedere ai miei familiari spiegazioni in merito alle
mie bizzarrie comportamentali e se le voci fossero vere. La risposta
che ebbe fu semplice: ero distaccata poiché malata. Il malessere
mi aveva isolata. Un malessere di cui avevano sofferto molti altri membri
della nostra famiglia. Thurzó, soddisfatto delle notizie raccolte,
mi lasciò presto in pace.
Ero tuttavia tormentata da ben altre preoccupazioni: trovare giovani
fanciulle che accettassero di divenire mie servitrici iniziava a rivelarsi
estremamente complicato.
Dorkò, Ilona Jò e Katà promettevano abiti e denaro
ma rimaneva comunque difficile riuscire a dimostrarsi convincenti a
tal punto che i tre dovettero spingersi in paesi più lontani
dove la mia fama ancora non mi precedeva e dove non sarebbe più
stato prudente tornare dopo una prima volta.
In quel periodo il destino mi fece incontrare con una vecchia strega
odiata da molti, che per lungo tempo aveva vissuto solitaria nella foresta
di Csejthe prima che la ospitassi nella mia dimora. Fui lieta di donare
una casa anche al seguito di gatti che aveva con se. La donna aveva
un carattere particolarmente collerico ma tra me e lei nacque subito
una piacevole intesa. Il suo nome era Anna ma per un motivo che mai
mi concesse di sapere, si faceva chiamare Dravulia. Quando le narrai
per la prima volta della mia scoperta lei immediatamente, con gli occhi
che le brillavano, mi confermò che le abluzioni di sangue erano
davvero essenziali se volevo mantenermi giovane. Questa sua affermazione
servì a rassicurarmi poiché, nonostante fossi convinta
della loro efficacia, il terrore della vecchiaia non mi aveva ancora
abbandonata.
Grande merito per il perfezionamento del rito lo ebbe la strega Majorava,
divenuta una delle mie protette dopo la morte di Darvulia, che mi spiegò
come, il sangue di ragazze provenienti da dinastie nobili, avrebbe avuto
maggiore effetto per la conservazione della mia bellezza. Me lo rivelò
durante una violenta lite scoppiata tra noi. Il motivo scatenante del
litigio fu proprio il fatto che lo specchio, non nascondeva affatto
i primi segni del mio decadimento. Bugiarda era dunque stata Dravulia
così come la mia nuova compagna. Che mi spronasse a continuare
solo per farmi tacere ed evitare di assistere alle mie crisi di rabbia?
Le inveii contro, la pugnalai con parole crudeli, diffamai le sue capacità
di strega senza risparmiarle nulla. Majorava di rimando mi diede della
stupida, mi costrinse, a male parole, a calmarmi. Ancora furente mi
misi a sedere ed ascoltai quello che aveva da dirmi concedendole e concedendomi
il beneficio del dubbio. Mi disse che, se il sangue non dava gli effetti
da me desiderati era solo colpa della mia superficialità. Come
potevo essere stata così sciocca da servirmi del sangue delle
serve?
«Allora perché non strofinarsi la pelle con sangue di asino,
di coniglio o di capra? Perché non con quello di maiale o direttamente
nel fango? Siete stata una sciocca mia contessa, mia cara amica... Mischiare
il vostro sangue regale con quello di creature così simili alle
peggiori bestie. Ora strillate come un’infante viziata, lasciate
che le vostre gote si tingano d'ira e come una serpe sputate veleno
su me! Ma badate Erzsébeth che io ho la soluzione per voi. Sangue
di donne reali a voi serve, sangue che porti in sé ricchezza
e prestigio. Sangue di ragazze belle come dee, capaci di far irrigidire
tutto un uomo con un sol sorriso!»
Questo il discorso che mi fece.
Così i miei servi furono indirizzati alla ricerca di fanciulle
di sangue blu. La caccia ebbe inizio. Le prescelte furono quelle che
provenivano da famiglie cadute in miseria per i troppi debiti e che
risultavano allettate dall'idea di andare a tenere compagnia ad una
nobile contessa continuando a vivere così nel lusso e nell'eleganza
con la speranza di ricevere una qualche dote e l'invito a feste dell'alta
società.
Altra cosa molto importante per Majorava era che le vittime dovevano
essere ben nutrite, poiché un sangue debole non può trasmettere
che debolezza. La mia condizione economica iniziava ad essere precaria
e per sfamarle mi avvalsi della soluzione migliore. Troppe erano le
vite da me spezzate, inutili corpi senza vita, concime per la terra
e nutrimento per i vermi. Diedi allora ordine che le carni delle vittime
fossero cotte e che fosse provveduto che le serve ingabbiate nei sotterranei
ne mangiassero in abbondanza. Se si fossero opposte disgustate, allora
ne avrebbero mangiato tre volte tanto. I miei dispendiosi piaceri mi
costrinsero a vendere tutti miei castelli ad eccezione di quelli di
Csejthe. Ma non fu certo quello il male peggiore. Il re Mattia, fedele
schiavo di Dio, era volto a combattere il male ovunque si annidasse
e chiese nuovamente a Thurzò di occuparsi di me.
Nel dicembre del 1610 lo stesso Mattia indisse una riunione parlamentare
alla quale nobili, magistrati e palatini della provincia furono invitati
ad assistere. Molti di quest’illustri personaggi mi inviarono
la loro richiesta di essere ospitati per il periodo natalizio, essendo
la mia dimora lungo la strada per raggiungere Bratislava.
Questo mi diede motivo di pensiero: le stesse persone che per prime
sospettavano di me sarebbero state mie ospiti. Come avrei potuto rifiutare?
Improvvisamente mi sentivo realmente in pericolo, un sentore forte,
palpabile. Mi aggrappai nuovamente al pensiero che potevo ancora confidare
nella protezione del mio lontano parente Thurzó.
Nonostante l'idea mi tranquillizzasse, per giorni rimasi ossessionata
dal pensiero che si stesse avvicinando la mia fine, mi ripetevo che
non v'era nulla di cui preoccuparsi, ero ben decisa a preparare la mia
partenza. Subito dopo quella riunione avrei raggiunto mio cugino Gabòr,
principe di Transilvania. Di certo lui mi avrebbe accolta con un sorriso.
Anzi, probabilmente avrei ricevuto le sue lodi per le mie inusuali abitudini
ben sapendo che nemmeno lui si risparmiava di nascondere sua crudeltà.
Mi trovavo quindi a trascorrere serate intere a passeggiare per il salone,
come se volessi continuamente misurarne la lunghezza per paura che volesse
schiacciarmi. Il fuoco bruciava e le fiamme danzavano per me ma io non
potevo vederle, immersa com'ero nelle mie continue domande e nelle continue
rassicurazioni. Se un attimo prima mi dicevo che non avevo di che allarmarmi
un attimo dopo ero nel panico. Majorava stava nella sua stanza e invocava
per me, invocava perché venissero mandati a lei un infinità
di gatti neri, spietati e insaziabili, che si nutrissero del cuore di
coloro che minacciavano la mia incolumità, che mi salvassero
da ogni sospetto. Ripeteva la sua richiesta continuamente con gli occhi
chiusi e le labbra tirate per la concentrazione, immersa in quel soliloquio
senza fine.
—
Alla vigilia
di Natale, arrivò il re con il suo seguito, Thurzó e altri
nobili che non è necessario elenchi. Il mio castello era addobbato
a festa, proprio come i vecchi tempi quando ancora solevo ricevere ospiti.
Tutto era di una perfezione e di uno splendore accecante, l'orchestra
riempiva le stanze con la sua musica ma io a stento riuscivo a reggermi
in piedi per il forte mal di testa. Thurzó non perse tempo e
mi chiese subito di appartarmi con lui. Inizialmente i suoi modi erano
gentili, le sue domande sembravano solo una prassi e con il suo tono
di voce voleva che io credessi che lui fosse convinto della mia innocenza;
cercò di carpire più informazioni possibili. Io negai
sfacciatamente tutto, terribilmente delusa del fatto che, anche lui,
infine avesse ceduto ponendosi contro me. Gli dissi che semplicemente
era stata una farsa montata dal tutore dei miei figli che mi odiava
senza che io ne conoscessi la ragione. Forse mi temeva vedendomi troppo
ricca e potente… La sua risposta fu che il pastore aveva confessato
che gli avevo commissionato di seppellire della donne ed io mi difesi
prontamente dicendo che sì, era tutto vero ma se gli avevo domandato
una sepoltura in gran segreto fu solo perché non volevo si rischiasse
un contagio vista l'affezione di cui erano morte.
Alla fine, esasperata da quell'incalzare di accuse voltemi contro, gli
risposi freddamente che, anche se tutto si fosse rivelato vero, non
capivo chi si credeva di essere lui per potermi giudicare e gli scoppiai
a ridere in faccia. Lui mi guardò spaventato dalla mia reazione
inaspettata e se ne andò scuotendo il capo in segno di dissenso.
Mentre il mio castello era illuminato giorno e notte, rallegrato dalla
musica e dall'aria di festa, la neve che mi era stata amica in passato,
questa volta aveva deciso di schierarsi a favore delle mie vittime.
Prematuramente decise di sciogliersi rivelando quattro corpi selvaggiamente
torturati.
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Emblema
della dinastia dei Báthory. |
Malgrado
il modo oltraggioso con cui avevo scacciato Thurzó, per lui restava
ancora di estrema importanza non vedere infangato il nome della famiglia
e perché questo non accadesse organizzò una riunione con
i membri della famiglia Báthory chiedendo loro di tener sotto
controllo i miei comportamenti, impedendomi di fare ancora del male.
Affermò che la faccenda doveva essere tenuta assolutamente nascosta
qualsiasi cosa loro avrebbero scoperto, qualsiasi orrore venisse rivelato
ai loro occhi. Com’era prevedibile non trovò nessuno in
disaccordo con le sue idee.
Ma, purtroppo, tutti loro ignoravano che un pericolo esterno incombeva.
Io ne rimasi stupita quanto loro quando seppi per quale mano venni condannata.
Megyery il Rosso, evidentemente non troppo fiducioso verso lo stato
ma sopratutto sapendo che Thurzó lottava più per la famiglia
che per il volere del re, si era già premurato di raccogliere
un gran numero di prove per conto proprio.
In quanto a me, che ancora non sapevo di alcuna riunione familiare né
tanto meno sospettavo che Megyery realmente volesse la mia rovina, appena
la mia casa si svuotò degli ospiti, trassi un profondo respiro
di sollievo che però non ebbe nessun potere di placare la mia
ira. Il senso di pericolo, la sete di sangue che avevo dovuto tenere
a bada in quel periodo mi avevano resa incontrollabile e adesso finalmente
dovevo e potevo sfogarmi.
Chiesi ad Ilona Jò di portarmi al più presto una donna
da punire per i suoi misfatti e mi venne condotta una giovane ragazza,
Doricza, che da poco era giunta al castello e veniva da molto lontano.
Era stata scoperta intenta a rubare una pera e a divorala di nascosto,
in un angolo della cucina.
Era bellissima, la sua pelle era morbida e delicata, il suo corpo sinuoso
e i capelli lunghi e morbidi che rilucevano come raggi di luna. Nessuna
delicatezza riservai per lei, per quel corpo che forse avrebbe meritato
ben più tempo di quello che vi dedicai. La mia furia non mi permise
di godere di lei e con lei. Mi ci accanii contro martoriando le sue
carni senza alcuna pietà, lacerandole con i denti, con le unghie.
Graffiai la sua faccia fino a renderla irriconoscibile e sfregiai brutalmente
il suo corpo come se un felino vi si fosse avventato. Dalla mia gola
continuava ad uscire una risata che non riuscivo a controllare, forte
e squillante come un urlo. Camminavo a passi svelti per la stanza, irrequieta,
per poi ritornare sul corpo della ragazza che ormai non aveva nemmeno
più la forza di lamentarsi. Continuai a frustarla brutalmente,
ripetutamente e instancabilmente anche se la vita l’aveva ormai
praticamente abbandonata. Ma non bastava. La mia eccitazione era insaziabile,
volevo di più. Inspiegabile è il desiderio della ricerca
di appagamento sessuale così come lo è la ricerca del
sangue.
Mi feci portare altre due ragazze a cui riservai la stessa drammatica
fine. Strofinavo il mio corpo sui corpi sdraiati delle giovani, immobilizzati
dai miei fedeli e più le stoffe candide del mio abito si impregnavano
del loro sangue più in me fremeva il desiderio. Morsi la spalla
di una e mi colmai la bocca di sangue lasciandolo poi scivolare lungo
il mento, lungo il collo. Dopodiché riprendevo a camminare spedita
per la stanza senza riuscire a smettere di ridere e più gridavo
più mi eccitavo. Con le mani mi cosparsi il sangue sul viso,
mi sfilai tremante lo stretto corpetto lasciandomi libera e continuai
ad accarezzarmi quindi strisciai di nuovo sul corpo della serva per
infilzarlo. Infilzai il suo seno prominente, lo morsi. Deturpai il suo
viso senza tregua e più lei urlava più io ridevo. Rotolai
di fianco al suo corpo e rimasi qualche istante a terra con il respiro
affannoso senza smettere di sghignazzare per poi rimettermi nuovamente
all'opera. Lacrime di piacere ripulivano il mio volto da quel sangue
che non mi apparteneva. Mi alzai in piedi mi feci spogliare dei miei
abiti e mi feci procurare un coltello. Con rapidità, bramosa
di raggiungere l'oblio, recisi i polsi di una delle due e me li passai
lungo tutto il corpo nudo, sulla fronte, sui seni candidi e sodi, sui
fianchi e tra le gambe. Ridevo e urlavo di piacere fino a che, stremata,
non mi ritrovai sdraiata, stretta a quel corpo ormai senza vita e la
schiena scossa dagli ultimi spasmi. Un corpo prima di morire ancora
si agita, così come gli amanti, nelle loro contrazioni, sono
elettrificati dall’orgasmo.
Mi alzai barcollando, più tranquilla. Mi guardai intorno pervasa
da una strana sensazione. Ora che la mia furia era stata placata tutto
mi appariva improvvisamente strano, irreale. Mi sentivo come fluttuare
nella stanza, immersa in un sogno, nella distorsione e nell’allucinazione.
Forse già qualcosa di indefinibile mi preannunciava la fine di
tutto questo. Continuai ad osservare ciò che mi circondava sotto
lo sguardo perplesso dei miei servitori. Chissà che espressione
singolare dovevo avere se ancora riuscivo a stupirli. Camminai per la
stanza scavalcando i corpi delle giovani senza prestarvi attenzione:
in quel momento era come se fossi sola, in quel luogo che io stessa
avevo creato, quella stanza che era stata il mio rifugio e la porta
per la mia perdizione.
I muri erano sporchi di sangue ancora fresco. I miei piedi nudi lasciavano
impronte scarlatte sul pavimento ad ogni mio passo. Mi avvicinai all'enorme
donna metallica che tanto utile era stata per la mia cura e la accarezzai
con delicatezza rabbrividendo al contatto con il ferro freddo. Era come
se il tempo si fosse momentaneamente fermato, se prima ero apparsa così
frenetica nella mia violenza adesso aleggiavo sospinta da un vento invisibile.
La vasca da bagno era sporca, il sangue ormai coagulato. Con movimenti
lenti, come fossi sotto l'effetto della morfina mi ci sedetti dentro
poggiando la testa al bordo. Chiusi gli occhi. Ogni suono mi giungeva
ovattato e attutito, le voci delle fedeli erano un sussurro lontano.
Mi pareva di aver varcato i confini della realtà ed averli lasciati
lontani per raggiungere terre sconosciute, fatte di silenzio. Volevo
godere di quella pace per un attimo, quella pace che mi diceva che quella
era l'ultima volta che avrei visto quel luogo.
«Preparatevi!» Dissi. «Dobbiamo lasciare questo posto.»
Raccolti i miei abiti e i miei gioielli, volsi un ultimo sguardo al
castello che avevo tanto odiato ma che alla fine avevo imparato ad amare.
La mia fuga doveva essere prossima, un sentore di allarme mi aveva avvisata
all'improvviso. Le mie fattucchiere erano da subito state d'accordo
con me. Anche loro, dicevano, potevano annusare un pericolo imminente
nell'aria. Senza vedere altra scelta, visto che non mi era concesso
il tempo di organizzare il mio viaggio, dovetti abbandonare le mie serve
nelle loro prigioni. Portarle con me era d’altronde impensabile.
Trovammo rifugio nell’altro mio castello al centro del paese dove
avrei trascorso la notte mentre i servi avrebbero lavorato preparando
le carrozze e i bagagli. L'indomani mattina saremmo partiti per la Transilvania.
Ma la fortuna mi aveva abbandonata ed il tempo mi fu nemico.
Quella stessa notte Megyery il Rosso, il pastore, Thurzó e i
dei soldati, insieme a molti contadini che si unirono a loro durante
il tragitto, fecero irruzione nel castello minore.
Sapevo benissimo che ogni spiegazione sarebbe stata vana. Megyery con
aria soddisfatta mi disse che ormai non c'era più bisogno di
parole. Ciò che avevano trovato entrando nelle segrete del castello
era inconfutabile. Le serve imprigionate avevano raccontato tutto ciò
che erano state costrette a subire e a vedere. E anche se non avessero
avuto la lingua per parlare, i loro corpi magri e sfregiati sarebbero
stati una prova sufficiente.
Per sottolineare la mia colpevolezza il Rosso prese a sventolarmi il
mio diario che aveva prelevato dalla carrozza, leggendomi ad alta voce
ciò che vi era scritto, con aria beffarda. L'euforia avvampava
sulle sue gote, la sua fronte sudava, la sua voce si faceva più
alta mentre saltava di pagina in pagina urlandomi nelle orecchie tutti
quei nomi che avevo accuratamente numerato e annotato descrivendo le
particolarità delle vittime.
La mia situazione terribilmente disperata non mi impedì di sorridere
quando lesse l'ultimo nome, la vittima seicentododici.
Lo sconforto mi avvolse invece quando seppi che tutti i miei fedeli
erano stati uccisi. Il processo iniziò l'11 gennaio del 1611
e durò solo pochi giorni. Le cose che narro adesso sono solo
quelle che ho potuto apprendere perché mai mi presentai in tribunale.
Le domande poste ai miei fedeli furono le medesime per ciascuno di loro
e tutti ripeterono le medesime cose. Ormai si era davvero giunti alla
fine: il 7 gennaio venne espressa la sentenza definitiva.
«Che ad Ilona Jò, Dorottya Szentes e Katà vengano
strappate le dita delle mani e dei piedi che furono strumenti di morte
e che vengano quindi bruciate sul rogo fino alla morte. Ordino invece
che a Ficzkò venga tolta la vita per decapitazione!»
La mia cara amica e compagna Majorava, imputata di stregoneria, venne
arsa viva senza che le fosse posta alcuna domanda.
In quanto a me, venni portata nel castello maggiore e rinchiusa nella
mia stanza. Il pastore Ponikenus fu incaricato di darmi l’ultima
possibilità di pentimento, prima che la pena a me riservata fosse
messa in atto.
Quella sera, con lui, risultò talmente divertente da far apparire
meno tragica la mia posizione. Mi guardò fissa negli occhi con
espressione severa cercando di non vacillare nel suo ruolo e mostrandosi
forte ma quando io feci un passo verso di lui egli indietreggiò
prontamente.
«Non voglio ucciderla padre.» Gli dissi accennando appena
un sorriso, l'ultimo che qualcuno poté vedere.
Mi chiese cosa mi avesse spinto a fare ciò che avevo fatto. Questa
domanda scatenò la mia ira. Inveii contro l'uomo dicendogli che
lui, misero sciocco, non poteva permettersi di rivolgere domande a me,
che ero così alta e potente in confronto a lui. «Voi, messaggero
di Dio, chiedereste forse al vostro signore e padrone per qual motivo
costantemente e indistintamente prende per sé le vite dei mortali?
Non credo davvero altrimenti non indossereste quella veste... Ebbene
allora non permettetevi mai più di volgermi una simile domanda!»
Sul suo volto lessi l'orrore per le mie parole e per tale blasfemia.
Mi urlò carezzando inquieto la croce che aveva al collo, che
Dio per me era morto.
«Anche gli stupidi lo sanno!» Fu l'unica cosa che gli risposi
senza scompormi e con freddezza gli indicai la porta senza abbassare
il braccio fino a che non se ne fu andato.
Anche Thurzó, infine, ebbe la sua piccola vittoria riuscendo
a non rendere pubblico il mio caso. Venni murata nella mia stanza, mi
vennero sbarrate porte e finestre lasciando uno spiraglio solo per il
cibo. Solo una fessura sul soffitto mi concedeva di vedere un poco di
luce. Uno spiraglio che permetteva di trovare rifugio agli uccelli,
ai topi e alla pioggia. L'ultima volta che mi guardai attorno, l'ultima
volta che accettai ancora la luce era come se fosse un pomeriggio come
tanti, mentre aspettavo che le serve venissero ad agghindarmi come di
consueto. Fu quell' ultimo sguardo che mi convinse che mai avrei voluto
vedere il lusso decadere giorno per giorno. Fu quel giorno che Erzsébet
Bathory disse addio alla sua immagine in uno specchio.
Adesso, il giorno mi rintano sotto le coperte, celata al sole che mi
può essere solo nemico. Riposo attendendo la notte. La sento
come se mi chiamasse e allora mi alzo in piedi e cammino nel buio. Nove
mesi sono passati da allora e chissà, forse adesso la mia stanza
conserva ancora qualche traccia degli antichi splendori, l'importante
è che io la possa ricordare com'era: il grande letto a baldacchino,
i mobili intarsiati e le pesanti tende di velluto. Chissà quanto
ancora il mio petto avrà respiro… Non provo più
rabbia, non provo più dolore, sono guarita dalla mia malattia.
Questi giorni qui rinchiusa sono la quiete dopo tanto scatenamento,
dopo innumerevoli eccessi.
Dopotutto, anche io, ho diritto ad un po’ di riposo.
—
La contessa
Erzsebet Bathory, dopo più di tre anni di reclusione, spirò
in quella stanza che poco differiva da una stalla, tra ratti e ragnatele,
tra nidi di uccelli ed escrementi. Era la notte del 2 agosto 1614 quando
trovarono il suo corpo senza vita.
Era nata da due membri della stessa famiglia, György e Anna Báthory.
Si pensa che la causa dei suoi problemi psichici e fisici derivasse proprio
da questa unione incestuosa. Tra i Bathory molti furono i casi di lesbismo,
sadismo, perversione e crudeltà. Nelle segrete del suo castello
furono rinvenuti gli strumenti di tortura più disparati. Dalle
trascrizioni della contessa Báthory compaiono circa 650 nomi di
vittime minuziosamente elencate. Tuttavia il numero esatto non è
stato mai appurato. Nell’ipotesi che 650 sia il numero esatto delle
vittime, Erzsébet Báthory sarebbe la più grande assassina
che la storia abbia mai conosciuto.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Thorne, Tony, La contessa Dracula – La vita e i delitti di Erzsébet
Báthory, Milano, Mondadori, 1998.
Tani, Cinzia, Assassine, Milano, Mondadori, 1998.