Caillois,
Roger, La vertigine della guerra, Presentazione
di Antonino Frenda Pólemos
kakós è la «mala guerra» che, nell’Iliade
(XVI, vs. 490-494), Glauco, «guerriero combattente e gagliardo»
(polemistén) deve volere se vuole essere valoroso (eì
toús essi). Guerra ed essere costituiscono già da Omero,
come più volte è stato ricordato, una condizione ierontologica
e non una mera necessità “morale”, come se si attribuissero
ai Greci (ancora loro!) o ai popoli antichi in genere, le nostre preoccupazioni,
tutte post-democratiche e dal sapore law and order. Questo breve
preambolo introduce velocemente al “problema” polemologico
in Occidente, cioè alle svariate implicazioni filosofiche, politiche,
antropologiche della guerra e del suo statuto non solo “strategico”
ma anche “culturale”. Dopo von Clausewitz e De Maistre, si
possono riscontrare tre grandi e lucidi polemologi in Ernst Jünger,
Carl Schmitt e Roger Caillois. Quest’ultimo, allievo di Durkheim,
Mauss e Dumézil, dopo brevi esperienze surrealiste, fonda, nel
1936 e fino al 1939, il College de Sociologie con Bataille e Leiris. Sociologo
del sacro, Caillois delinea le sue prime analisi sulla guerra ne L’uomo
e il sacro (1939), ampliando compiutamente le proprie intuizioni
in La vertigine della guerra (1963) ristampato recentemente da
Città Nuova con un’ottima prefazione di Umberto Curi. Guerra
e sacro s’inerpicano con Caillois in una vera e propria morfogenesi
polemologica: egli individua in Proudhon, Ruskin e Dostoevskij, che «non
sono affatto guerrieri» come i grandi apologeti della guerra dei
primi dell’Ottocento, i primi profeti della guerra “politica”
capace palingeneticamente di rinnovare le comunità e i popoli.
La guerra come forma invece, avulsa dai suoi effetti utilitaristici,
immediati e sociali, irrompe però nella sfera del sacro, esclusivamente
in quanto è guerra. In questo senso Ernst Jünger
e Renè Quinton, con la loro “mistica” bellica, preludiano
e ripresentificano l’eterno ritorno della festa, altra
«mitologia parallela». È qui che emerge fortissimo
l’aspetto polemo-antropologico per il quale dobbiamo ancora molto
al Maestro francese. L’omologia festa-guerra, lo statuto del guerriero
consacrato e la sua tremenda carica sacrale possono aiutarci, se accantoniamo
la noblesse esotica o arcaica di archi, frecce e maschere, a concepire
la weltanschauung dei massacri etnici e di molti conflitti religiosi,
dalla Serbia al Congo sino agli “scontri di civiltà”
più recenti, senza tranquillanti umanitario-mediatici: «La
via - afferma Caillois - che conduce alla festa e alla guerra si confonde
con quella del progresso tecnico e quella dell’organizzazione politica».
Lo dimostrano ancora i bombardamenti di città immerse nelle proprie
feste tradizionali, o l’impiccagione di dittatori in ricorrenze
particolarmente cariche di sacro e attentati dove s’invoca la Spada
del Profeta. Più dell’opposizione kalós\kakós,
alla quale ci ha abituati l’universalismo irenista e messianico
della guerra “democratica”, sono pòlemos e
hieròs in verità, che non hanno mai smesso di essere
gli occhi acuminati della Vertigine, o di Bellona. |