Nancy, Jean-Luc, L'intruso, Napoli, Cronopio, 2006.

Presentazione di Andrea Savoldi
in Ctonia -4, Gennaio 2009.

Intruso, straniero, estraneo. Termini che indicano l’altro-da-me, la sua alterità è racchiusa in queste parole. Eppure accade che io sia lo straniero di me stesso; accade che io incarni – letteralmente - questa estraneità; accade che io sia l’intruso di me stesso all'interno dei confini del mio corpo. Tutta la questione ruota attorno al proprio corpo. A questo mio corpo che non mi appartiene del tutto, e che può sempre appartenere a qualcun altro. Nulla è meno stabile dei valori di attribuzione e di possesso. Ma cosa accade quando un intruso fa la sua venuta (perché non può che essere così, l’intrusione implica sempre la sua inanticipabile venuta) in questa corporalità? Passaggio di improprietà. L’intrusione di un organo a fronte dell’estraniazione, dell’inappartenenza di un altro organo. Il processo di assimilazione di questo straniero, di questo estraneo è impossibile: il corpo tollera se stesso, la superficie è infranta, aperta. Il corpo eccede la sua superficie, nel punto in cui il limite non contiene più l’eccesso della carne. Io sono l’altro e l’altro è in me, in questa frattura radicale ed indecidibile. Lo straniero non può che restare tale e perdurare nella sua venuta. Senza inclusione, senza dialettica. L’intruso, lo straniero, nel suo passaggio incessante non può che essere intrusivo, intromissivo e al contempo non fa altro che introiettarsi, esporsi nel frastuono del vuoto che occupa. Lo concentro per eliminarlo. Lo sorveglio per non averlo più sotto gli occhi nel futuro. I confini si spezzano, si aprono, si dischiudono. Lo straniero continua nella sua venuta, non cessa la sua intrusione. Si adatta, diventa parte del mio corpo. La "malattia" è diventata la cura. Punto il dito contro l'"altro" ma lo punto contro me. Io sono la mia malattia.