Nancy, Jean-Luc, L'intruso, Napoli, Cronopio, 2006. Presentazione
di Andrea Savoldi Intruso,
straniero, estraneo. Termini che indicano l’altro-da-me,
la sua alterità è racchiusa in queste parole. Eppure accade
che io sia lo straniero di me stesso; accade che io incarni –
letteralmente - questa estraneità; accade che io sia l’intruso
di me stesso all'interno dei confini del mio corpo. Tutta la questione
ruota attorno al proprio corpo. A questo mio corpo che non mi appartiene
del tutto, e che può sempre appartenere a qualcun altro. Nulla
è meno stabile dei valori di attribuzione e di possesso. Ma cosa
accade quando un intruso fa la sua venuta (perché non può
che essere così, l’intrusione implica sempre la sua inanticipabile
venuta) in questa corporalità? Passaggio di improprietà.
L’intrusione di un organo a fronte dell’estraniazione, dell’inappartenenza
di un altro organo. Il processo di assimilazione di questo straniero,
di questo estraneo è impossibile: il corpo tollera se stesso, la
superficie è infranta, aperta. Il corpo eccede la sua superficie,
nel punto in cui il limite non contiene più l’eccesso della
carne. Io sono l’altro e l’altro è in me,
in questa frattura radicale ed indecidibile. Lo straniero non può
che restare tale e perdurare nella sua venuta. Senza inclusione, senza
dialettica. L’intruso, lo straniero, nel suo passaggio incessante
non può che essere intrusivo, intromissivo e al contempo non fa
altro che introiettarsi, esporsi nel frastuono del vuoto che occupa. Lo
concentro per eliminarlo. Lo sorveglio per non averlo più sotto
gli occhi nel futuro. I confini si spezzano, si aprono, si dischiudono.
Lo straniero continua nella sua venuta, non cessa la sua intrusione. Si
adatta, diventa parte del mio corpo. La "malattia" è
diventata la cura. Punto il dito contro l'"altro" ma lo punto
contro me. Io sono la mia malattia. |